La Stampa 14.12.16
Sull’Europa il vento freddo di Washington
di Marta Dassù
Washington,
capitale fredda di Trumplandia. Fredda davvero: un vento gelido soffia
sulle giacche tutte uguali dei funzionari - qualche migliaia - che
stanno lasciando le stanze del potere. E fredda, o forse imbarazzata, in
senso psicologico: nessuno, nei vari think tank che si affacciano uno
dopo l’altro su Massachusetts Avenue, è in grado di dire con qualche
sicurezza cosa intenda fare The Donald in politica estera. E’ più
semplice dire ciò che non farà: continuare come prima. Per tutti i
nostri interlocutori americani, l’elezione di Trump segna la fine di
un’epoca: con i suoi alti e i suoi bassi, il sistema internazionale del
dopo guerra fredda esce definitivamente di scena. L’America non ne sarà
più il pilastro. Finisce così, mi dice con tono scherzoso un politologo
di scuola «realista», il mondo di Davos, con i suoi riti; ma non è
chiaro cosa stia cominciando. L’era della de-globalizzazione?
Partiamo
dalla parola alla moda: la politica estera di Trump sarà
«transactional», contrattuale. Ossia? Ossia un approccio fondato - più
che su istituzioni, principi, alleanze stabili - su accordi ad hoc, su
«deal» temporanei: è il metodo del business applicato alla diplomazia.
Il deal con un avversario - la Russia di Putin - può venire prima della
difesa di un alleato. Contano i singoli interessi americani; conta meno
di prima la salvaguardia generale del sistema occidentale, con i suoi
valori liberali e le sue istituzioni multilaterali più o meno
traballanti.
Aggiungiamo adesso un secondo termine di moda a
Washington: Trump sarà un presidente «jacksoniano». Secondo Walter
Russell Mead, studioso delle correnti della politica estera americana,
questo significa un mix ben preciso: nazionalismo economico, superiorità
militare americana, ma uso raro e quanto mai selettivo della forza. La
priorità è il rafforzamento interno. All’esterno, la percezione è che le
minacce prevalgono nettamente sulle opportunità.
Ciò che unisce i
due tratti - la politica estera «transactional» del presidente
«jacksoniano» - è la convinzione che il potere vada usato per quello che
è. Non per pensare di cambiare il mondo, per sostenere l’architettura
internazionale o per esportare la democrazia (secondo le varie visioni o
illusioni novecentesche); ma per trattare da posizioni di forza con
avversari ed amici.
E’ un approccio che si può definire
«neo-vestfaliano»: adatto ad un attore internazionale come la Russia,
forse troppo semplificato per la Cina neo-confuciana e con cui l’Europa
dovrà fare seriamente i conti. Vediamo perché.
Con la Russia, il
metodo Trump ha buone chances di funzionare: indicando Rex Tillerson
quale Segretario di Stato - affidando così la diplomazia americana al
Ceo di ExxonMobil, che ha legami personali con Putin e tratta da decenni
con il mondo petrolifero russo - Trump manda un segnale preciso anche a
Mosca. Con un sottotesto pragmatico o forse spregiudicato: accordo
sulla Siria, lasciando sullo sfondo l’annessione della Crimea,
giudicando secondario il destino dell’Ucraina e gettandosi alle spalle
le sanzioni. E’ uno scenario - su cui già si orienta il mondo
industriale italiano - che sancirebbe l’esistenza di una sfera di
influenza russa nel «vicino estero» e un ruolo permanente di Mosca in
Medio Oriente, favorendo peraltro anche l’Iran, indicato da Trump come
nemico privilegiato. Vantaggi a breve termine, ma problemi più a lungo
termine. Si può già dare per scontato che parte della politica e della
burocrazia di Washington tenderà a mettersi di traverso (primo segnale:
le tensioni con la Cia sulle presunte interferenze russe nella campagna
elettorale americana).
Se il gioco è più rischioso e complicato
con la Cina (in questo caso il suo impatto è globale, non regionale),
per l’Europa il timore di fondo è molto semplice: restare emarginata. La
logica del deal è che gli europei facciano finalmente la loro parte,
nella politica di sicurezza e difesa. Ma non sarà così semplice, nel
dopo Brexit e con la grande incertezza politica che domina nei Paesi
decisivi. Lo stallo, nel 2017, è annunciato. E Trump avrà rapporti
bilaterali: Londra first, senza perdere di vista una Germania che ha
letto con preoccupazione la sua elezione, ma che vuole restare la
potenza europea di riferimento.
Non è affatto detto che la nuova
amministrazione assumerà posizioni contrarie agli interessi europei - o
di una parte di loro. Per il Vecchio Continente, la priorità è di
salvaguardare il legame con un’America che sembra destinata a una nuova
fase di vitalità economica. Per gli osservatori ottimisti, Trump 1
potrebbe essere un Reagan 2. Il punto è che l’Ue, figlia del mondo
atlantico, non può più dare quel legame per scontato. Dovrà cambiare
radicalmente se vorrà giocare la sua partita in un sistema
internazionale più incerto e più duro di quanto sia mai stato dal 1945
in poi. Il vento freddo di Washington sembra quasi un avvertimento.