il manifesto 14.12.16
L’«I Love Oil» di Donald Trump
di Guido Moltedo
Con
la nomina a segretario di stato di Rex Wayne Tillerson, texano, 64
anni, presidente e amministratore delegato di Exxon-Mobil Corporation, e
con la probabile nomina al suo fianco, come numero due del dipartimento
di Stato di John Bolton, ex-ambasciatore all’Onu di George W. Bush, si
completa il mosaico dei posti chiave della politica internazionale della
prossima amministrazione americana.
Nei giorni scorsi abbiamo
appreso che al Pentagono andrà un ex generale dei marine, «Cane pazzo»
John Mattis. E che consigliere per la sicurezza nazionale sarà il
generale in pensione Michael Flynn, mentre rappresentante all’Onu sarà
la governatrice della Carolina del sud Nikki Haley.
In più c’è già
la designazione del prossimo ambasciatore a Pechino, il
governatore-padrone dell’Iowa Terry Branstad, vecchio amico del numero
uno cinese Xi Jinping.
Tranne John Bolton, che ha un retroterra
nella diplomazia – anche se applicato a lui il termine suona paradossale
– e che per questo s’occuperà della gestione del dipartimento di Stato,
nessuna delle persone scelte da Donald Trump ha esperienza
politico-amministrativa e, se conosce il mondo, ha la conoscenza che può
avere un militare o una spia, come nel caso di Mattis e Flynn, o il
capo di una multinazionale, come Rex. Qual è dunque il criterio dietro
la loro scelta?
Nel caso di Haley, visto che per Trump l’Onu
potrebbe anche proprio chiudere i battenti, il requisito è stato quello
di lasciare libera la poltrona di governatore, che andrà al suo vice,
Henry McMaster, un fedelissimo di Trump che va ricompensato per
l’impegno profuso nella campagna elettorale.
Per gli altri, Trump
ha privilegiato proprio l’inesperienza washingtoniana, che è la premessa
di un rapporto diretto, verticale ed esclusivo con il capo, con lui, e
una sintonia con la sua linea che, peraltro, com’è ormai appurato, non
segue la logica della politica corrente ma quella delle sue priorità,
anche momentanee, perfino dei suoi capricciosi e improvvisi mutamenti di
direzione.
Il dato più di fondo, però, più materiale e pratico,
in queste scelte è che la politica estera della nuova amministrazione
sarà decisamente dettata dagli affari, sarà business oriented, e sarà,
anche per questo, collegata e subalterna alle opzioni strategiche di
politica interna.
Il comparto energetico, quello degli idrocarburi
è al centro dell’attenzione di Trump, sia nella politica domestica sia
in quella internazionale, anche in opposizione alle risorse rinnovabili e
sostenibili (i cui programmi di espansione saranno smantellati dal
nuovo capo dell’agenzia per l’ambiente, Scott Pruitt, paladino della
crociata contro i sostenitori del cambiamento climatico).
Più
petrolio, dunque, e più carbone, e a costi più bassi. Anche grazie alle
minori restrizioni ambientali. È la premessa di un rilancio
dell’industria manifatturiera assettata di energia e produttrice di
beni, le automobili innanzitutto, che divorano combustibile, e che
torneranno a essere le belle, grandi macchine americane, e in grandi
numeri viaggeranno su autostrade, su ponti e viadotti, una rete
infrastrutturale da rifare.
Trump ha in mente un ritorno alla
vecchia industria novecentesca, l’unica, secondo lui, che può rilanciare
l’occupazione e far girare soldi, un ritorno ai vecchi stili di vita
degli anni della prosperità: questa è la sua idea di un’«America di
nuovo grande».
Il rapporto speciale con Vladimir Putin è forse il
tassello principale di questo scenario che sta prendendo corpo, una
relazione che, sulla scia degli affari in corso in Russia di Rex e della
sua Exxon e delle sorelle del petrolio, produce business, interscambio,
soldi e un comune interesse a far sì l’atmosfera d’amicizia sia
tutelata.
La Russia vituperata dai democratici americani per le
sue azioni in Ucraina e in Medio Oriente? Vlad accusato di intrighi
informatici per far perdere Hillary e far vincere The Donald?
Stupidaggini. Anzi, ragioni in più per Trump e per i repubblicani perché
si vada decisamente avanti su questa strada.
Trump è considerato
un isolazionista in politica estera. Per il fatto che non sembra
interessato a rafforzare il complesso militare industriale tradizionale,
al fine anche di presidiare le aree di valore strategico per l’America.
Ha
fatto scendere i titoli della Lockheed, dicendo che il programma degli
F-35 è costoso e inutile. Ha detto più volte che intende ridurre il
budget americano nelle alleanze militari internazionali, la Nato
innanzitutto. Eppure ha inzeppato l’amministrazione di militari e di
sostenitori del mondo militare. «I love generals», ha detto, annunciando
la nomina di «Cane pazzo». Sarà munifico con i veterani, enorme
serbatoio elettorale, e vedremo come intenderà poi foraggiare gli
appetiti del Pentagono e dell’industria correlata.
Già perché, per
ora la casta militare – e quella degli 007 – è in prudente attesa, non
senza qualche preoccupazione. A ben vedere, i personaggi finora scelti,
provenienti dalle forze armate e dai servizi, erano entrati in rotta di
collisione con i vertici, e per questo sono poi finiti nelle braccia di
The Donald.
Se avrà problemi, Trump, e lo si vedrà presto,
verranno soprattutto dall’establishment militare, che, innanzitutto per
dna, non può che diffidare di un commander-in-chief imprevedibile e
indisciplinato come Trump.