Repubblica 14.12.16
Da Orlando a Bersani in Transatlantico lo sfogo dei capicorrente
Sconcerto per la Boschi, lite sul congresso
La polveriera del Pd tra veleni e macerie “Sentire la direzione è come stare su Marte”
di Tommaso Ciriaco
ROMA.
Mestizia e veleni, altro che un nuovo inizio. «Ora basta, dobbiamo fare
qualcosa – scuote la testa il ministro Andrea Orlando, mentre in
buvette si dedica a una macedonia – perché con la direzione di ieri
sembrava di stare su Marte». Annuisce il collega Maurizio Martina, un
po’ scosso: «Incontriamolo insieme, faccia a faccia. Spieghiamogli che
serve discontinuità, perché così non funziona». Ecco il Pd, giorno primo
dell’era di Paolo Gentiloni. L’unica buona notizia sono i 368 voti di
fiducia. Il resto è impasto di capicorrente e rancori, trame e cavilli
congressuali. Con Matteo Renzi a Pontassieve, a farne le spese è
innanzitutto il governo. «Ciao Ermete – è il saluto di Paolo Romani al
“gentiloniano” Realacci - pensavo entrassi nell’esecutivo... ». «Avrei
dato volentieri una mano al mio amico Paolo la replica - ma viste le
condizioni, molto meglio restarne fuori».
Ovunque si guardi, si
incontrano macerie. Il renzismo, ad esempio. Il 4 dicembre ha subito un
colpo talmente duro che è come in bambola. Il “governo fotocopia” ha
fatto il resto. «C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole – ironizza
Pierluigi Bersani, citando Pascoli – anzi di antico...». In effetti, in
Transatlantico un’unica domanda si rincorre: perché lasciare Maria Elena
Boschi a Palazzo Chigi? «È uno schiaffo al Paese – si arrabbia Roberto
Speranza - ci hanno chiesto discontinuità e gli diamo un governo
identico. Così il Pd muore». Passi per la minoranza. Ma i dubbi stavolta
scuotono correnti e ministri. Non riescono a darsi una spiegazione
Martina o Orlando, alla buvette. Si interrogano i renziani di seconda e
terza generazione, e alcuni della prima ora. Mentre il clima di sospetto
cresce. «Pier Luigi, lasciati salutare. Anzi no - scherza Graziano
Delrio incrociando Bersani sennò dicono che complottiamo ».
Quando
il partito e Palazzo Chigi si perdono di vista, si rischia l’incidente.
Come ai tempi del governo Prodi, indebolito dall’ascesa alla segreteria
di Walter Veltroni. Un film già visto anche con Enrico Letta e Matteo
Renzi. Gli indizi ci sono tutti. «La legislatura è finita – attacca il
renzianissimo Ivan Scalfarotto durante l’assemblea del gruppo e non ha
più alcuna ragione d’essere ». Il tempo di rifiatare e sale sul podio il
capogruppo Ettore Rosato: «La spinta propulsiva della legislatura è
finita». Invoca le urne citando Enrico Berlinguer e la crisi del blocco
sovietico, anche se dopo quel discorso l’Urss restò in piedi altri dieci
anni.
Se Palazzo Chigi sembra l’ostaggio di una battaglia senza
quartiere, il congresso si trasforma nel terreno di questo scontro. Ma
quale congresso? E quando, soprattutto? Per adesso si discute
soprattutto di cavilli. La minoranza è pronta ad accettare l’assise
soltanto di fronte alle dimissioni del leader. Altrimenti, minaccia vie
legali per violazione dello Statuto. «Vogliamo fare un ragionamento
politico - domanda Lorenzo Guerini a Bersani - o arrivare davvero alle
carte bollate?». E l’ex leader: «No, certo, però ci sono le regole...».
Per il vicesegretario dem esiste anche un piano B, come spiega alla
Camera a Dario Franceschini: «Se qualcuno pretende le dimissioni di
Matteo, allora Renzi resta e il congresso si fa a novembre, come da
statuto». Ma la sinistra interna invoca comunque lo scalpo: «Serve un
congresso vero sui territori - reclama Speranza - non una rivincita di
un leader incazzato che dice che abbiamo sbagliato a votare no».
La
verità è che nell’assemblea di domenica si rischia un gran pasticcio. E
le posizioni si moltiplicano. Orlando chiede di non forzare troppo i
tempi, mentre altri Giovani Turchi assediano Matteo Orfini in
Transatlantico. «Altri due mesi di guerra sulle regole – si lamenta
Michele Bordo – e la nostra gente ci odierà». I “falchi renziani”, però,
lavorano alla mossa del cavallo, un ordine del giorno che porti
l’assemblea a fissare il congresso senza passare da dimissioni. Un atto
di guerra. Una spirale preoccupante. «Nel 1992 ero democristiano e ho
vissuto quella dinamica autodistruttiva si intristisce il senatore Paolo
Naccarato - Se il Pd non si ferma in tempo, finisce esattamente come la
Dc».