martedì 13 dicembre 2016

Repubblica 13.12.16
Il motore spento dei democratici
di Stefano Cappellini

MATTEO Renzi ha consegnato al suo successore Paolo Gentiloni un voluminoso report sull’attività di governo. Un passaggio di consegne, certo, ma anche e soprattutto un modo di rivendicare l’operato dei suoi mille giorni a Palazzo Chigi. Non c’è invece — e probabilmente non ci sarà — un dossier sui tre anni da segretario del Partito democratico che Renzi dovrebbe consegnare a se stesso.
CON tutta probabilità, infatti, continuerà a essere il capo del principale partito della sinistra italiana anche dopo il congresso annunciato per febbraio. Ed è un peccato non ci sia, questo report, perché risulterebbe un’utile riflessione autocritica. Risponderebbe forse Renzi: è sufficiente l’inventario dell’azione del governo a dare il segno dell’impronta politica del Pd. Ma questa convinzione rischia di essere solo un’altra illusione.
La verità è che il Partito democratico di Matteo Renzi non è mai nato. Non è nato per una scelta volontaria del leader, appunto nella convinzione che non servisse costruirlo, il nuovo Pd, dotarlo di un pensiero autonomo rispetto all’agenda di governo, arricchirlo di un gruppo dirigente animato da caratteristiche diverse dalla fedeltà al leader, calarlo nella società con modalità meno effimere del ricorso personale ai social network e agli appelli tv.
Renzi ha sempre mostrato fastidio per il suo partito. Ne ha irriso — non a torto — certi passatismi e rituali. Lo ha definito una zavorra dopo una dura sconfitta alle amministrative liquidata con la parola d’ordine del localismo. Ma ha rimosso che spettava al leader cambiarlo e rilanciarlo. Nel suo progetto di disintermediazione, anche il Pd era uno di quei corpi intermedi da aggirare, magari alimentando l’equivoco del suo esserne un po’ dentro un po’ fuori. Senza rendersi conto che questo, oltre a indebolire la sua base di consenso elettorale, nuoceva pure alla credibilità generale del suo messaggio.
La legittima paura renziana di un ritorno all’identitarismo, a un corbynismo all’italiana, è diventata in questi anni l’alibi per rinunciare a qualsiasi identità che non fosse l’azione sul campo del leader. Una sorta di dannunzianesimo politico nel quale c’è ogni volta una nuova Fiume da conquistare e da lasciarsi alle spalle senza troppi rimpianti ma spesso con molte macerie. «Questa iniziativa non è né di destra né di sinistra », ha ripetuto decine di volte l’ex premier presentando le mosse del suo esecutivo. La ricercata rottura degli schemi è stata insieme il marchio della sua ascesa e un modo di mettersi in sintonia coi tempi (non lo ripetono ossessivamente anche i Cinque Stelle?), il tentativo dichiarato di sedurre l’elettorato altrui. Obiettivo giusto in sé ma che si è rivelato nel corso del tempo più un modo di sostituire i consensi mancanti in casa propria che una via per allargare la base elettorale.
Il Renzi segretario del Pd non ha mai coltivato l’ambizione di costruire una dottrina che lo collocasse in un suo campo ben definito. Campo di idee, alleanze, organizzazione. Si è crogiolato nel lascito più scivoloso degli anni Novanta, la semplificazione del rapporto tra cittadini e politica fino alla sua completa ossificazione. Eppure, come ammonisce la parabola del leader che ha brevettato il modello, Silvio Berlusconi, nemmeno il più solido patrimonio di consenso personale sopravvive alla complessità del reale e all’inflazione della crisi se non si radica in un progetto, in una comunità politica cementata da un orizzonte comune oltre che dagli interessi, sacrosanti ma volatili, degli 80 euro in busta paga o dell’abolizione (peraltro indiscriminata) dell’Imu.
Districarsi tra la vocazione pragmatica di governo, che deve parlare a tutti, e la costruzione di una identità, che deve necessariamente parlare alla propria parte, è complicato ma irrinunciabile. Senza questo sforzo — che richiede studio, fatica, delega — l’unico esito è il plebiscitarismo, la suggestione di una osmosi tra il leader e il popolo. È una finta scorciatoia che la sinistra italiana, per mascherare le sue lacune, ha imboccato anni prima di Renzi, grazie a quel surrogato di partecipazione reale rappresentato dalle primarie. Esattamente il lavacro che oggi Renzi insegue, facendo di conto sul teorema presunto matematico secondo il quale il 40 per cento del Sì al referendum diventerà 80 per cento al congresso dem e poi di nuovo 40 per cento alle prossime elezioni.
Nel frattempo, non certo solo per responsabilità dell’attuale segretario, il Pd come comunità politica si è sfarinato, avvizzito nelle sempre più autoreferenziali beghe di corrente: ha perso voti, iscritti, ruolo. E oggi è un partito in coma, stritolato dalle debolezze di tutte le sue componenti, dalla tentazione renziana di costruire un nuovo partito a immagine e somiglianza del leader e da quella speculare della sinistra interna che, priva della forza per sfidarlo sul campo, medita di sottrarsi alla battaglia congressuale.
Il taxi, già ammaccato dalle elezioni del 2013, che ha portato Renzi a Palazzo Chigi è stato lasciato in garage tre anni. Ora si vorrebbe rimetterlo in moto per ripetere l’operazione, ma il rischio è che stavolta il motore non parta più. E che, nell’Italia dove aumenta a ogni tornata la quota di elettori che pensano di poter fare a meno della sinistra, siano altre forze a lucrare sul disagio e lo scontento dei dimenticati italiani.