martedì 13 dicembre 2016

Repubblica 13.12.16
La cabala della politica
di Michele Ainis

C’È UN folletto, c’è un diavolo burlone dietro questa crisi di governo. Le prove? Basta mettere in sequenza i fatti. O i numeri, che si ripetono come in una giostra. Dal 12.4 (voto finale della Camera sulla riforma costituzionale) al 4.12 (voto popolare al referendum) fino al 24.1 (voto della Consulta sull’Italicum). Insomma: 1, 2, 4. I primi tre numeri, ma senza il tre.
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ESENZA l’ausilio di Minerva, dea della ragione. Anzi: con una serie di distorsioni logiche, se non di veri e propri paradossi. Sono almeno sette, come i peccati capitali.
Primo: le dimissioni. Renzi le avrebbe rassegnate su due piedi, subito dopo il ko del referendum; Mattarella gli ha chiesto d’aspettare l’approvazione della legge di bilancio. Sicché quest’ultima, a sua volta, è stata timbrata dal Senato su due piedi, o meglio nello spazio di due giorni. Dimostrando così che il bicameralismo paritario non è affatto un intralcio, che il Senato non è affatto un freno. Dipende dal pilota, non dal motore. E il pilota, in questo caso, è come se si fosse dimesso per due volte: da palazzo Chigi e dalla sua riforma.
Secondo: la fiducia. Quella posta dall’esecutivo sulla legge di bilancio, che il 9 dicembre ha ottenuto l’assenso di 173 senatori. Ora, la «questione di fiducia » è un po’ un ricatto verso i parlamentari della maggioranza: o votate quel tal provvedimento — dice il governo — oppure mi dimetto. Invece stavolta la fiducia serviva per accelerare le dimissioni, non per scongiurarle. Più che una minaccia, recava una promessa. Sicché i senatori si sono trovati nella singolare condizione d’approvare una fiducia per esprimere sfiducia.
Terzo: le consultazioni al Quirinale. Dove hanno sfilato 23 delegazioni, un record. Eppure questo Parlamento è figlio del Porcellum, il supermaggioritario bocciato poi dalla Consulta. Morale della favola: nessun maggioritario frappone un argine alla disgregazione, quando gli eletti disfano gruppi e partiti in Parlamento (263 cambi di casacca nella legislatura in corso, altro record). Bisognerebbe correggere il divieto di mandato imperativo, come propongono all’unisono Grillo, Renzi, Berlusconi; ma guarda caso, questa è l’unica riforma che non ci hanno sottoposto.
Quarto: la legge elettorale. Cambierà, ma come? Difficile inventare l’ennesimo modello: il tempo è poco, gli ingegneri sono esausti. Non resta che rivolgersi al mercatino dell’usato, dove si trovano due sistemi bell’e pronti: il proporzionale della prima Repubblica; il Mattarellum con cui ha esordito la seconda. Il nostro prossimo passo sarà il passo del gambero.
Quinto: la Consulta. È un giocatore di riserva, ma può segnare il gol che decide la partita. Succederà se le forze politiche non riusciranno a licenziare la riforma dell’Italicum, come nel 2013 non riuscirono a mettersi d’accordo sul superamento del Porcellum. A quel punto intervennero i giudici costituzionali (sentenza n. 1 del 2014); e nacque il Consultellum, tutt’ora vigente nei soli riguardi del Senato. Dopotutto, si tratta semplicemente di replicare l’esperienza. Ma se le leggi elettorali le scrive la Consulta, significa che il Parlamento non ci serve, dunque non ci servono elezioni, dunque non ci servono leggi elettorali. Più che una sentenza, un rompicapo.
Sesto: la legislatura. Subito al voto, chiede l’opposizione di destra e di sinistra. Anche con l’Italicum, aggiungono i più spericolati. Ballottaggio alla Camera, proporzionale al Senato: che sarà mai? Sarà un sistema schizofrenico, con esiti opposti nelle due assemblee legislative. E sarà un Carnevale della democrazia, con quel ballottaggio alla Camera dove non si vince nulla, perché le poltrone di governo si vincono in Senato. Urge un corso di lezioni sulle elezioni.
Settimo: il nuovo esecutivo. Nuovo? Rimane inalterata la formula politica (il centro del Pd alleato coi centristi) nonché la maggioranza dei ministri. A occhio e croce, parrebbe casomai un rimpasto, per usare un’etichetta dei bei tempi andati. Ovvero la sostituzione di qualche giocatore nella squadra di governo, ma senza porre in discussione il rapporto fiduciario, senza aprire una crisi formale. E se la sostituzione tocca al presidente del Consiglio? Anche in questo caso, non mancano precedenti illustri. Febbraio 1849: Gioberti si trovò costretto a fare le valigie, mentre i suoi ministri rimasero tutti al proprio posto, sorretti da unanime consenso. In quell’occasione, insomma, fu rimpastato il solo presidente del Consiglio. Ecco perciò svelato il senso di tutti questi bizzarri avvenimenti: erano l’antipasto del rimpasto.