Corriere 12.12.16
Il voto e le regole: quel passo indietro che i partiti non vogliono fare
di Aldo Cazzullo
Chi
ha stabilito che la legge elettorale la debbano scrivere i giudici
costituzionali? Il Parlamento è sovrano. Se pressoché tutti i partiti si
sono espressi a favore del voto anticipato, perché aspettare un mese e
mezzo per un’udienza che potrebbe comunque non essere risolutiva? La
Consulta non fa le leggi. La Consulta stabilisce quali norme di una
legge violano la Costituzione. È possibile che dalla sentenza esca una
legge che possa essere applicata. È possibile che questo non accada. Ma
la Consulta si muove entro un ambito ristretto. Il legislatore no.
N
on facciamoci illusioni: approvare una nuova legge elettorale in
Parlamento è difficile perché ogni partito ha a cuore il proprio
interesse particolare e non quello generale. Non dappertutto è così.
Nelle democrazie anglosassoni il sistema elettorale è lo stesso da
generazioni. In altri Paesi esiste un tacito patto: non si possono
cambiare le regole in base alle convenienze del momento. Chi violò
questo patto — Mitterrand nel 1986 — pagò caro l’azzardo; e fece subito
retromarcia, ripristinando i collegi uninominali con doppio turno che
hanno garantito alla Francia stabilità e alternanza. Anche nei sistemi
anglosassoni ci sono i collegi uninominali, ma a turno unico.
Pure
l’Italia ha conosciuto una stagione così. Poco più di centomila
elettori esprimevano il loro parlamentare. In questo modo abbiamo avuto
appunto la stabilità e l’alternanza per due intere legislature (quasi un
miracolo per l’Italia): dal 1996 al 2001 ha governato il
centrosinistra, sia pure con tre premier; dal 2001 al 2006 ha governato
il centrodestra, con Berlusconi.
Questa legge porta il nome
dell’attuale presidente della Repubblica. Un dettaglio non secondario.
Sergio Mattarella deve la propria statura anche al fatto di aver dato al
Paese norme che non riflettevano l’interesse della propria parte, ma la
volontà popolare.
Il sistema maggioritario non nasce dal nulla.
Nasce dalla stagione dei referendum. Il 18 aprile 1993 andarono alle
urne il 77% degli italiani, più ancora di quelli che domenica scorsa
hanno bocciato la riforma costituzionale, per chiudere l’era del
proporzionale. Qualcuno ha nostalgia degli anni in cui tracciavamo una
croce sul simbolo di uno dei tanti partiti — che non perdevano e non
vincevano mai veramente —, delegando la formazione del governo alle
segreterie, provocando instabilità e consociativismo? Eppure è lì che si
rischia di tornare: al proporzionale, con un modesto premio di
maggioranza che in questo momento nessuno dei tre poli è in grado di
conquistare. Con il retropensiero che alla fine Pd e Forza Italia, Renzi
e Berlusconi si metteranno d’accordo per tagliare fuori Grillo. Ma non è
questo il modo migliore per far crescere ancora i Cinque Stelle?
Qualcuno pensa davvero di potersi chiudere mesi nelle segrete della
politica alle prese con alambicchi da cui distillare — ammesso che
esista — la legge in grado di tenere i grillini lontano dal governo? E
ancora: nei sondaggi il Pd vale il 30% o anche meno; Forza Italia il 10 o
poco più; con che coraggio si potrebbe parlare di larghe intese?
Neppure
il Mattarellum dà la garanzia di esprimere una maggioranza
parlamentare; anche se nel 1996 è accaduto, nonostante al Nord i poli
fossero tre. Si potrebbe dividere il 25% della quota proporzionale in
modo da garantire sia un premio di maggioranza, sia un diritto di
tribuna. Ogni schieramento ha fior di esperti in grado di dipanare le
tecnicalità. Basta che ci sia la volontà politica. Proprio quella che al
momento manca.
Il Pd dice in sostanza: noi saremmo
favorevolissimi al Mattarellum; solo che non lo vuole nessuno. Ma perché
non mettere gli altri partiti alla prova? Matteo Salvini ha detto
l’altro ieri, nell’intervista a Marco Cremonesi del Corriere, che a lui
il Mattarellum sta bene: perché non stanarlo? Anche Grillo aveva aperto
al Mattarellum, per poi diventare proporzionalista; ora ha ricambiato
idea e ha proposto di estendere l’Italicum pure al Senato. Quanto a
Berlusconi, in questa fase in cui fatica a riunificare il centrodestra
preferirebbe il proporzionale; ma con il Mattarellum ha stravinto le
elezioni due volte, nel 1994 e nel 2001, e le avrebbe vinte pure nel
2006, quando invece volle una legge rinnegata dal suo stesso autore.
Insomma,
i collegi uninominali non favoriscono a priori uno schieramento
piuttosto che un altro. Il sospetto è che i partiti non li vogliano
perché tolgono potere alle segreterie e lo danno ai cittadini: che
conoscono il loro parlamentare, lo possono controllare per cinque anni, e
poi confermarlo o cambiarlo. Inoltre una campagna elettorale con il
Mattarellum è una gran fatica: il candidato (che potrebbe essere scelto
con le primarie, impossibili da imporre per legge, ma in grado di dare
al prescelto un vantaggio competitivo) deve conquistarsi il collegio. E
di questi tempi, in cui la sinistra perde a Livorno, Perugia, Torino e
vince a Vicenza, Bari, Catania, collegi sicuri non ce ne sono. Molto più
comoda la soluzione dei capilista bloccati, degli eletti designati non
dagli elettori ma dai partiti.
Basterebbe una legge di due righe
per ripristinare un sistema che ha funzionato bene e riduce la frattura
tra il Palazzo e i cittadini. Riuscirci è difficile, forse
difficilissimo. Ma provarci è necessario. Il primo che lo fa, acquista
un credito presso l’opinione pubblica. Per una politica che finora ha
accumulato soprattutto discredito, non è poco.