Repubblica 13.12.16
L’ultima amnesia. Come se alle urne avesse vinto il sì
di Stefano Folli
IERI
sera, mentre i ministri giuravano al Quirinale, qualcuno faceva notare
con ironia che il nuovo governo sarebbe stato perfetto se avesse vinto
il Sì. In quel caso al posto di Gentiloni avremmo visto ancora Renzi, ma
per il resto nessuna differenza. Maria Elena Boschi sarebbe stata
premiata come in effetti è avvenuto: sottosegretario alla presidenza del
Consiglio, un posto chiave per il quale occorre esperienza, tatto e
profonda conoscenza della macchina statale. Doti che l’ex ministra delle
Riforme non ha mai mostrato di possedere, se non altro per via della
giovane età. In questo caso, tuttavia, le sarà sufficiente tener
d’occhio il calendario delle nomine nei grandi enti e negli altri centri
di potere, badando che i prescelti non siano sgraditi al segretario del
Pd. Luca Lotti sarebbe diventato ministro, sia pure senza portafoglio. E
davvero lo è diventato, mantenendo peraltro il suo ufficio a Palazzo
Chigi, con competenza sull’editoria e, per buona misura, anche sul Cipe.
In caso di vittoria del Sì il ministro dell’Interno avrebbe potuto
pretendere un premio alla propria lealtà. Lo ha ottenuto lo stesso,
visto che Alfano è da ieri ministro degli Esteri, responsabile delle
relazioni internazionali dell’Italia, forse la poltrona più importante.
Si
pensava che fosse interesse del nuovo presidente del Consiglio marcare
un qualche grado di autonomia e non consegnarsi mani e piedi alla
polemica dei Cinque Stelle e della Lega. Invece il tema del governo
fotocopia, agitato dalle opposizioni, acquista legittimazione e
addirittura viene sbandierato da un segmento scontento e frustrato della
maggioranza come il gruppo di Denis Verdini, rimasto a mani vuote.
Quasi fotocopia, per la verità: si deve riconoscere che l’ingresso di
Anna Finocchiaro, parlamentare competente e da tutti stimata, è una
delle poche note positive. Insieme ad altre due. La prima è la nomina di
De Vincenti a ministro della Coesione nazionale, pur se il governo
avrebbe tratto vantaggio dalla sua permanenza a Palazzo Chigi come
sottosegretario alla presidenza e gestore dei dossier più delicati (il
lavoro che da oggi, come si è detto, dovrebbe esser svolto da Maria
Elena Boschi).
La seconda novità è la decisione di Gentiloni di
trattenere per sé le deleghe sui servizi di sicurezza che nel precedente
esecutivo erano nelle mani di Minniti, persona affidabile a cui è stata
data la responsabilità del Viminale. Non è dato sapere con certezza se
in questa scelta abbia pesato il consiglio di Mattarella. Di certo è
fallito il complicato percorso di cui si vociferava e che avrebbe dovuto
concludersi con le deleghe assegnate a Luca Lotti, l’efficiente amico e
consigliere di Renzi. Questo è il punto politicamente più rilevante
della giornata. La prova indiretta che il governo Gentiloni vive, come è
ovvio, dell’appoggio parlamentare del Pd e dei centristi, ma anche di
una buona relazione fra il nuovo premier e il capo dello Stato. È in una
certa misura, o almeno dovrebbe essere, una sorta di “governo del
presidente” che si appoggia da un lato al Parlamento e dall’altro al
Quirinale. Al punto che si poteva immaginare che l’influenza del Colle
riuscisse a favorire la nascita di un esecutivo dal profilo più alto e
soprattutto più innovativo.
Così non è stato e il calcolo di
Gentiloni è oggi quello di non approfondire il solco con Largo del
Nazareno. Dove in effetti Renzi agisce come se il referendum avesse
regalato al Pd un successo da coltivare con cura. L’idea, un filo
paradossale, è che il 41 per cento del Sì costituisce un patrimonio del
Pd e del suo leader. Quindi il problema è quello di non disperdere quei
voti e di metterli nell’urna delle prossime politiche. Il che spiega
anche perché nessun esponente del No sia stato invitato a entrare nel
governo semi-fotocopia. Si capisce che il cammino di Gentiloni è
impervio, forse più di quanto egli stesso immaginasse. Tuttavia il
futuro è ancora da scrivere. Il nodo della legge elettorale resta
cruciale e qui i toni misurati e concilianti del presidente del
Consiglio, che non vuole invadere lo spazio del Parlamento,
permetteranno — si spera — alle parti politiche di avviare un negoziato
serio. Non saranno le “larghe intese”, ma è chiaro che la legge avrà
bisogno del concorso di Berlusconi. Il che apre scenari non del tutto
prevedibili.