Repubblica 13.12.16
James Hillman tra ricerche e ironia svela il legame cibo-psicoanalisi
Il cuoco con Edipo alla tavola di Freud
di Marino Niola
Panini,
Coca-Cola, tramezzini, spaghetti precotti e hamburger. È questa la vera
psicopatologia della vita quotidiana. L’origine di tutte le nostre
nevrosi. A dirlo è Sigmund Freud. Anzi no. È il celebre psicanalista
James Hillman che con la complicità del mitologo Charles Boer, uccide il
padre della psicanalisi e cucina i suoi frammenti in un banchetto
cannibalico. Il risultato è “La cucina del dottor Freud”, un libro a
metà tra “Psycho” e Woody Allen, appena uscito da Raffaello Cortina con
la traduzione di Vittorio Serra Boccara. Apparso negli USA nel 1985,
questo spaesante cookbook freudiano, che sembrava solo un divertissement
da psicanalisti consumati,
alla luce della cibomania dilagante di
oggi, si rivela in tutta la sua profetica attualità. E diventa una
sorta di analisi dei lapsus, delle fissazioni, delle rimozioni, delle
ossessioni, delle fobie di homo dieteticus. Cioè il cittadino globale
che ha fatto del cibo il vero luogo della libido. Altro che il sesso.
Perché Hillman e Boer fanno confessare al grande Sigmund che la
psicoanalisi non è nata dietro il divano, ma davanti ai fornelli.
In
questo senso è vero che la pratica analitica e la cucina hanno avuto
molto in comune, perché sono entrambe delle fantaisies de bouche. Solo
che all’origine di tutto non c’è il sesso, ma la gola. E le nevrosi non
nascono a letto, ma a tavola. Questo libro costituisce dunque una
clamorosa retromarcia dell’oralità, che restituisce alla bocca un ruolo
non semplicemente metaforico, sostitutivo, ma letterale, alimentare,
funzionale. Come dire che le gratificazioni genitali derivano dalle
voluttà orali e non viceversa: se repressione c’è stata, è stato il
sesso a reprimere e sublimare il cibo e non viceversa. E a muovere la
pulsione orale non è il desiderio ma la gourmandise.
Insomma
attraverso i frammenti di lettere, appunti biografici, testi della
figlia Anna messi insieme da Hillman e Boer emerge un Freud severo verso
se stesso e feroce verso i suoi seguaci, colpevoli di aver ridotto la
pratica analitica a un formulario di ricette precotte, a «cucina
psicologica freudiana ». E il padre della psicanalisi se la prende anche
con i medici che, in generale, non sanno mangiare e hanno sublimato le
loro frustrazioni orali con tetre ammonizioni. Per cui, conclude, «noi
dovremmo mangiare come le mucche e i cavalli, vale a dire verdure crude,
cereali integrali, pasti misurati, equilibrati. Quelle famose diete
equilibrate, che generano menti squilibrate». E aggiunge che in fondo
tutti i protagonisti dei suoi casi clinici più celebri avevano
trasformato i totem alimentari in tabù.
Anna O. si nutriva
unicamente di arance. Dora era una «mediocre mangiatrice e rivendicava
il suo disinteresse per qualsiasi cibo». Mentre Miss Lucy R. era
afflitta da strane dis-percezioni olfattive. In questo senso la ricetta
del fegato d’anitra isterica che si trova nel libro è idealmente
dedicata a loro. Mentre il piccolo Hans ha ispirato quella
dell’Hansburger, la succulenta polpetta di carne equina che il grande
viennese avrebbe consigliato come terapia per far superare al bambino la
paura dei morsi di cavallo. All’insegna del meglio mangiare che essere
mangiati.
E questo è solo l’antipasto. Perché il libro propone un
menu ricchissimo fatto di transfert, nonsense, giochi linguistici
davvero gustosi. Dalle fettuccine libido, al barattolo di déjà-vu, dalla
crostata edipica alla torta paranoica. Sono a tutti gli effetti ricet-
te vere, che mescolano tradizione viennese, gastronomia ungherese, umori
yiddish. Come l’oca al forno con salsa di mele del pranzo di Natale,
che mamma Amalia preparò per il suo goldener Sigi, l’adorato Sigi, fino
all’età di novantacinque anni, senza fargli mai capire se lo chiamasse
così perché lo adorava davvero o per fargli fare la figura dello scemo.
Di qui al complesso di castrazione il passo è breve.
Ma il
triangolo edipico Hillman-Boer-Freud si spinge ancora più in là. E
liquida senza rimpianti un topos analitico come la scena primaria.
All’origine di ogni sofferenza nevrotica ci sarebbe infatti la cena
primaria, non la scena. A turbare il bambino non è il sadismo
fantasmatico di mamma e papà che fanno sesso. Ma il sadismo autentico
dei genitori che impongono di smettere di giocare per ingurgitare
un’orribile purea di spinaci. E ce n’è per maestri, colleghi, rivali e
seguaci, da Charcot ad Adler, da Ernest Jones a Melanie Klein. Anche se
la rasoiata più feroce lo pseudo-Sigmund la riserva alla mania dilagante
dello Jung Food. Un cibo pronto e di largo consumo, con una spiccata
zodiacalità, caramellata ed edulcorata, un po’ esotica, un po’
esoterica. Una spazzatura analitica insomma. Proprio come le teorie di
Carl Gustav in versione new age. Così tra il serio e il faceto, tra
salsa Narciso e involtini Thanatos, insalata Ave Cesare Lombroso e
lingua di bue afasica, rognoni di Abraham e abbassamento del pisello
mentale, affiora tra le parole d’ordine e le figure chiave della
psicanalisi, un immenso laboratorio di gastronomia potenziale. Che sta
fra la cucina dell’inconscio e l’inconscio della cucina. Fra Totem e
tabù e totem e ragù.
IL LIBRO La cucina del dottor Freud di J. Hillman e C. Boer (Raffaello Cortina pagg. 254 euro 19)