Repubblica 10.12.16
Distrazione elogio filosofico di una virtù troppo umana
Non solo la letteratura, ora lo dice anche la scienza: la mente che vaga stimola la creatività
Guardare a Dio o al mondo è il dilemma dei grandi mistici Il grande Oliver Sacks indagò sulla percezione allargata
di Marco Belpoliti
Una
buona notizia per i distratti, cioè per tutti noi. Distrarsi non è un
male, anzi. È salutare, è necessario, è un bene. Senza distrazione non
c’è creatività. Alla faccia di maestri, professori, educatori, genitori.
«Il cervello non è mai inattivo, la mente non è mai ferma», scrive un
professore di psicologia dell’Università di Auckland, Nuova Zelanda,
Michael C. Corballis, in “La mente che vaga” (Raffaello Cortina). Per
almeno la metà della nostra vita la mente si distacca dalle incombenze
quotidiane, spiega Corballis. Il cervello non stacca mai, anche quando
la mente è impegnata, oppure è dedita a vagare lontano dal compito
assegnato. Senza distrazione non c’è pensiero. Lo diceva anche Steve
Jobs: la creatività è il risultato di un collegamento inusuale,
significa vedere qualcosa che non c’era. Il che si ottiene proprio con
la distrazione; meglio: con il vagare della mente. Se lo diceva Mister
Apple sarà vero, no? Un etimo della parola “intelligenza” la fa derivare
da “legare insieme”. Naturalmente si tratta di connettere cose che non
erano collegate. La divagazione mentale gode ancora di cattiva stampa;
prosperano le forme di meditazione concentrata, mindfulness, in cui si
dirigono i pensieri dentro di noi e si resta ancorati al presente. Tutto
sbagliato, dice lo psicologo neozelandese, o almeno non bisogna fare
solo quello. Serve una buona dose di distrazione.
Uno studioso di
etimologia ha trovato che distratto, inteso come contrario di
concentrato, deriverebbe dall’uso che ne facevano i mistici medievali:
il distratto sarebbe colui che gli svaghi esterni distolgono dalla
concentrazione in se stesso e in Dio. Insomma, uno che è “distratto da
Dio”. “Concentrato” deriverebbe invece da “concentrico”; secondo
Leonardo si tratta di due o più enti geometrici che hanno un centro in
comune.
La religione ha cose in comune con la geometria? Probabile.
Ma torniamo a Corballis. La prima cosa che lo psicologo esamina nel suo
viaggio dentro la mente che vaga è la memoria. Tutto comincia e finisce
qui. La memoria appare composta di almeno tre livelli. Al più basso ci
sono le abilità apprese, come camminare, parlare, scrivere, andare in
bicicletta, giocare a tennis, digitare i messaggi sugli smartphone. Il
secondo è la coscienza, ovvero il nostro magazzino di fatti sul mondo:
enciclopedia e dizionario combinati. Il terzo livello riguarda la
memoria degli eventi specifici, ovvero la “memoria episodica”, quella
che corrisponde al ricordare; la riattivazione dinamica del passato: il
primo bacio, un incontro molto gratificante, la nascita dei figli, un
film, un libro. Emozioni rivissute e ripercorse con la mente. Corballis
propone una bella immagine: il cervello è un po’ come una piccola città,
in cui brulicano persone assorbite nelle proprie faccende. Quando c’è
qualcosa d’importante, come una partita di calcio, la gente si riversa
allo stadio, mentre il resto della città appare silenzioso.
Perciò
quando la mente non è concentrata su qualche evento, vaga. Vagare non è
solo un andare a zonzo liberamente. Può essere un’attività soggetta a
controllo. Ad esempio, quando riviviamo ricordi passati o pianifichiamo
attività future. Sono distrazioni preordinate. Ma ci sono quelle
involontarie, cui il libro è in gran parte dedicato: il sogno e le
allucinazioni, sia quelle derivate da stati alterati della mente che
quelle indotte mediante droghe. Ma c’è anche un’altra straordinaria
divagazione: l’empatia. Ovvero entrare nei panni degli altri. Anche
questo è un vagare con la mente. Poi esiste la divagazione che diventa
racconto. Corballis ritiene che molto del nostro vagare con la mente sia
narrato sotto forma di storie.
La mente umana possiede una grande
capacità di costruire racconti complessi e di condividerli con gli altri
mediante il linguaggio: «Il vagare con la mente è nelle mani o nella
voce di chi racconta storie; chi ascolta o chi legge è davvero
trasportato in un viaggio guidato». Da cui si può anche evincere che la
divagazione non esiste, se non come ipotesi, perché tutto quello che
sottolinea Corballis ci riporta lì: la distrazione è una speciale forma
di concentrazione, e viceversa.
Possibile? Lo conferma la parte più
affascinante del libro, quella che riguarda coloro che sentono voci e
che vedono cose che non ci sono. Chi ha letto Allucinazioni (Adelphi) di
Oliver Sacks sa di cosa parlo; chi non l’ha letto, lo faccia subito.
Alla fine del capitolo sulle visioni, dopo aver parlato di quelle
indotte dalle droghe, arriva a concludere: «Può darsi che esageri, ma le
allucinazioni ci dicono che c’è nella percezione più di quello che
incontriamo con i nostri occhi». I mistici lo sanno bene, e proprio per
questo sono “distratti da Dio”, il che vuol dire che rischiano di non
concentrarsi sulla divinità. Però anche concentrandosi totalmente su
Dio, si distraggono dal mondo, ed è proprio così che si vedono cose che
gli altri non vedono. Beati loro. A noi — a me — non resta che la
distrazione degli scolari: vagare con la mente per ricordare cose belle
del passato, progetti e speranze per il futuro. Non è poco. Può bastare.