Repubblica 10.12.16
Non è poi così lontana Samarcanda
Una città splendida, simbolo dell’Oriente. Governata dal brutale Tamerlano che amava arte e filosofia
L’imperatore rimase un nomade. Dormiva in una tenda e mai nei suoi sfarzosi edifici
Una storia che torna in un saggio di Franco Cardini
di Stefano Malatesta
I
governanti europei, con la loro supponenza e un forte complesso di
superiorità ereditato dai greci, non si sono mai interessati a quello
che succedeva fuori dei loro confini. Se non ci fosse stato Marco Polo,
ritornato a Venezia con dei racconti meravigliosi, non sapremmo nulla
della corte imperiale cinese e dell’Impero di Mezzo. Marinai provetti
come i genovesi stavano ovunque e li ritroveremo a Trebisonda sul Mar
Nero. Ma la loro attività era di genere strettamente privata, le loro
informazioni non erano conosciute dai poteri pubblici che mantenevano
una ignoranza totale su quello che succedeva oltre la costa del Levante.
Chiuse
nel mondo feudale, le popolazioni dei paesi europei vivevano di miti e
di leggende ed erano particolarmente propense a prendere fischi per
fiaschi. Quando in Europa arrivò la notizia che un esercito sconosciuto
stava facendo una carneficina dei mussulmani nell’Asia centrale, in ogni
paese cristiano si festeggiò l’uomo chiamato “il prete Gianni”. Una
sorta di zio autorevole e benevolo che proteggeva i cristiani dalle
angherie dei mussulmani, ma che nessuno aveva mai visto. Poi lo zio si
rivelò non tanto benevolo quando Subotai, il più grande tattico militare
di tutti i tempi, venne mandato insieme ai giovani nipoti di Gengis
Khan a invadere l’Europa con un esercito di 40mila uomini. In breve
tempo Subotai, al comando dell’esercito di quelli che gli europei
chiamavano “tartari” sconfisse i russi del Khanato dell’Orda d’oro, per
metà mongoli anche loro, i russi del nord, i cavalieri teutonici, poi i
polacchi ed infine i cavalieri ungheresi. E stava per dirigersi verso
Parigi, che sarebbe caduta, se non fosse arrivato l’annuncio che il Gran
Khan era morto. E Subotai dovette prendere la via del ritorno lungo un
itinerario di 12mila chilometri.
Duecento anni più tardi gli europei
caddero nello stesso errore di identificazione: presero per l’arcangelo
Gabriele il più demoniaco dei predatori : Timur, o Tamerlano, detto “lo
zoppo”. Verso la fine del Quattordicesimo secolo, l’Europa era
terrorizzata da tribù turche che dall’Asia si stavano spostando
celermente. L’imperatore di Costantinopoli, Giovanni V Paleologo, era
andato invano a bussare alle porte dei sovrani europei per farsi dare
aiuti militari e venti anni più tardi la situazione si era fatta
tragica, quando una spedizione contro i turchi, guidata dal re di
Ungheria, venne spazzata via dai giannizzeri del Sultano. Sembrava che
nulla potesse fermare la hubris turca quando arrivò la notizia che
Ankara era stata presa d’assalto dalle truppe di Timur, gli abitanti
massacrati e il sultano Bajazet fatto prigioniero. Era l’ultima
conquista in ordine di tempo, dopo Aleppo, Damasco, Bagdad e il Cairo.
Ora l’impero timuride andava dall’Asia centrale al Mediterraneo,
Tamerlano non doveva più temere attacchi alle spalle dall’Occidente e
stava realizzando il sogno di un impero globale che non era riuscito a
Gengis Khan.
Per un progetto simile era necessario avere una capitale
adeguata e l’imperatore scelse Samarcanda, una città che aveva da
sempre amato. Durante trent’anni Samarcanda non fu una metropoli, ma un
cantiere pieno di giardini, di fontane e di marmi pregiati, dove si
costruivano i più grandi, fastosi, anche un po’ volgari, edifici di
tutta l’Asia. Si vedevano più di 400 cupole di moschee, di scuole
coraniche, ricoperte di mattonelle azzurre, blu e oro con quella
sfumatura turchese che risaliva all’Antica Mesopotamia. Tutto veniva
eretto secondo i canoni della monumentalità. Gli architetti che avevano
costruito un mausoleo che non aveva la grandezza prevista furono
impiccati. L’Imperatore aveva riempito Samarcanda di studiosi,
architetti, musicisti, artigiani, deportati dal loro paese di origine,
che spesso non avevano trovato posto in città e dormivano nelle caverne,
tanto erano numerosi. Samarcanda, raccontata in un bel libro del
medievista Franco Cardini ( Samarcanda. Un sogno color turchese, il
Mulino) diventò un ibrido di città con un tasso altissimo di cultura,
paragonabile alla Firenze dei Medici, ma nello stesso tempo schiava dei
capricci di un solo uomo.
Tamerlano, non sapeva né leggere né
scrivere, ma aveva un amore straordinario per le belle arti e per le
filosofie che non capiva. È rimasto celebre un incontro con Ibn-Khaldun,
l’intellettuale più famoso di tutta la storia dell’Islam. Khaldun
sapeva di avere di fronte un feroce assassino che non manteneva la
parola data e che dopo ogni battaglia costruiva piramidi con le teste
dei nemici, ma non poteva fare a meno di essere attratto dalla sua
persona che irradiava potere assoluto.
Alla battaglia di Ankara
avevano partecipato come osservatori due inviati del re di Castiglia,
Enrico III. I due osservatori chiesero di essere presentati a Tamerlano.
E Tamerlano li invitò a venire a Samarcanda.
Le ambasciate a
Tamerlano furono due, la prima guidata da Hernán Sánchez de Palazuelos,
ma quella che ebbe un successo straordinario fu la seconda, guidata da
un giovanotto sotto i 30 anni, Ruy González de Clavijo. L’itinerario
partiva dalla Spagna, passava per le coste tirreniche, poi raggiungeva
la Grecia, attraversava l’Ellesponto e arrivava a Trebisonda. Ormai
erano entrati nell’impero dello “zoppo” e a ogni posta trovavano cavalli
magnifici che venivano dal Turkmenistan, mandati dall’imperatore per
accelerare il loro viaggio. A ogni tappa gli spagnoli venivano accolti
con doni e omaggi in nome dell’imperatore. E finalmente giunsero a
Samarcanda.
Il libro che Clavijo scrisse al ritorno è completamente
diverso da quello di Marco Polo. Il veneziano era un commerciante
particolarmente attento a descrivere le merci e i mercanti, mentre
rifugge, quando è in Cina, di parlare delle cinesi che si fasciano i
piedi o dei cormorani con l’anello al collo allevati per pescare senza
inghiottire, o della grande Muraglia cinese. Lo spagnolo è il suo
contrario e parla di tutti i palazzi in cui è ospite e delle
meravigliose città che visita. L’incontro con il grande imperatore è uno
dei momenti culminanti di questa fantastica spedizione. Timur era
rimasto un nomade e non dormì mai in quegli sfarzosi edifici che aveva
fatto costruire. Viveva in una immensa tenda, addobbata gloriosamente
(una buona idea la può dare il San Marco di Venezia costruito come la
tenda di un gran Visir).
La presentazione degli ambasciatori si
svolse secondo uno stretto rituale. Gli spagnoli furono portati al
cospetto dell’imperatore, circondati da una folla di alti militari e si
dovettero inginocchiare tre volte facendo le lodi di Timur. Finalmente
l’imperatore, che si riteneva padre di tutti i potenti, aprì gli occhi,
che aveva sempre tenuto socchiusi, e guardando Ruy Gonzáles de Clavijo,
facendo cenno di avvicinarsi, mormorò: «Come sta mio figlio, il re di
Castiglia?».
IL LIBRO Franco Cardini, Samarcanda Un sogno color turchese (Il Mulino, pagg. 325, euro 16)