il manifesto 10.12.16
L’Onu bacchetta Aung San Suu Kyi sul destino dei Rohingya
Myanmar. 20mila profughi sono ammassati in Bangladesh, sottoposti a violenze e omicidi
Aung San Suu Kyi
di Emanuele Giordana
Una
situazione insostenibile con oltre 20mila profughi ammassati in
Bangladesh. Denunce ripetute di violenze e omicidi a danni di civili in
un clima di caccia all’uomo. E divieto per le organizzazioni umanitarie
di rifornire i campi profughi allestiti nello Stato occidentale birmano
del Rakhine (Arakan). È la storia che da ottobre avvolge l’ennesima
epopea dei Rohingya e su cui grava il silenzio della paladina dei
diritti per eccellenza: Aung San Suu Kyi.
VIJAY NAMBIAR, consigliere
del segretario generale dell’Onu per il Myanmar, l’ha invitata ieri a
recarsi di persona a Maungdaw e Buthidaung, le due zone calde del
Nordest del Rakhine, lo Stato dove vive la minoranza dei Rohingya da
diversi mesi sotto il tallone di ferro dell’esercito birmano. È solo
l’ultima delle voci che tentano quella che appare ormai come
un’impossibile mediazione tra le legittime ragioni della minoranza
musulmana nel Paese buddista per eccellenza, le aspirazioni democratiche
del primo governo civile del Paese e la tradizione della casta militare
che di fatto continua a decidere in tema di sicurezza e repressione.
Le
ultime vicende risalgono all’ottobre del 2016 quando sono stati uccisi
alcuni militari per mano di gruppi secessionisti locali, episodio cui è
seguita una reazione spropositata dell’esercito birmano sotto accusa per
stupri, violenze e uccisioni extra giudiziarie. Reazione tanto
spropositata che quasi 22mila Rohingya sono fuggiti nel vicino
Bangladesh mentre molti altri si sono aggiunti alla popolazione dei
campi profughi allestiti all’epoca di pogrom anti musulmani del 2012.
IN
QUESTO QUADRO DI VIOLENZE, tensioni, migrazioni e fuga dal Paese da
ottobre si sta consumando quello che, alcuni giorni fa, il premier della
Malaysia Najib Razak ha definito genocidio e pulizia etnica. La
Malaysia è un Paese a maggioranza musulmana ma con una lunga tradizione
di tolleranza verso cinesi e indiani che costituiscono quasi la metà
della popolazione del Paese. Ma a Kuala Lumpur sono anche preoccupati di
una possibile ondata di nuovi profughi (nel 2015 almeno 25mila Rohingya
hanno cercato rifugio all’estero migrando verso Sud via mare per
raggiungere Filippine, Malaysia o Indonesia), un peso per ora retto
soprattutto dal Bangladesh, anche se Dacca sta ora cercando di sigillare
le sue frontiere.
Ha sempre offerto sostegno ai rohingya (anche ai
separatisti) che per il Myanmar non sarebbero veri cittadini birmani ma
immigrati bangladesi cui infatti non viene riconosciuta né la
cittadinanza birmana né lo status di minoranza. Il governo birmano, che
pur non avendo Aung San Suu Kyi come premier è di fatto guidato dalla
Nobel (che è ministro degli Esteri), è in difficoltà. Al suo minimo
storico dal momento in cui ha vinto le elezioni ed è sotto tiro in casa e
all’estero. In casa perché, oltre alla questione rohingya – cui ai
birmani importa poco – parte della guerriglia secessionista in alcune
parti del Paese ha ripreso a combattere.
Infine perché la gente ha
fretta di vedere mantenute le promesse, soprattutto economiche, dell’era
post militare. Fuori di casa invece, la Nobel e il suo governo – una
difficile alleanza con la casta militare che ha fatto un passo indietro
ma può contare su tre ministri e 110 seggi alla Camera attribuiti per
default – sono sotto tiro per i Rohingya. Sotto tiro ma fino a un certo
punto. A far la voce grossa ci sono solo l’Onu, Amnesty e le Ong. Cina e
India non han preso posizione e così il Giappone. Anche Stati uniti e
Ue sembrano aver altro cui pensare.
SOLO LA MALAYSIA ha alzato il
tiro e chiesto l’intervento del Tribunale penale internazionale. Quanto
agli indonesiani, il presidente Jokowi ne ha parlato con Kofi Annan,
incaricato da Aung San di occuparsi del problema. Ma per Kofi Annan,
reduce da una visita nell’area rohingya, la parola «genocidio» non va
ancora usata. Sembra che ci si debba accontentare del rapporto, atteso
per il 30 gennaio, della commissione nominata dal presidente U Htin Kyaw
il 1 dicembre. Annan è al corrente delle difficoltà di Aung San con i
militari birmani di cui può essere un buon esempio il fatto che il
generale Min Aung Hlaing, a capo dell’esercito, abbia evocato due volte
in novembre la possibilità dello stato di emergenza. Ma né una
condizione politica critica, né le parole di Annan, contraddette già a
metà novembre da un altro responsabile dell’Onu che aveva definito la
situazione «inaccettabile», riescono a giustificare il suo silenzio.
Pesante come un macigno.