Repubblica 10.12.16
L’America che resiste a Trump
All’assemblea di lotta dell’Upper West Side
di Federico Rampini
Un
avvocato: “È dagli anni Sessanta che non si respirava un’aria così
pesante, angosciosa” Distribuito il calendario di cortei e sit-in e
l’elenco dei legali specializzati nella difesa delle libertà
NEW
YORK Riuniamoci per discutere le nostre paure sui diritti civili,
l’ambiente, la situazione degli immigrati». La convocazione mi arriva
via email, firmata dalla consigliera comunale Helen Rosenthal,
rappresentante del mio quartiere al City Council: Distretto 6.
Appuntamento al Jay College, una facoltà di giurisprudenza, al 524 West
sulla 59esima strada. Alle 18 in punto di giovedì sera l’auditorium è
già strapieno, traboccante di cittadini del quartiere: almeno duemila
posti seduti, tanti altri rimangono in piedi.
E ci resteranno per due
ore e quarantacinque, è un pezzo dell’Upper West Side di Manhattan che
prepara «la resistenza a Donald Trump». Giovani e pensionati, mamme coi
bambini sul passeggino, afroamericani e immigrati ispanici: la risposta
all’appello è corale, in sala c’è un pezzo della società multietnica
newyorchese. All’ingresso ci hanno distribuito un kit di sopravvivenza:
calendario delle prossime manifestazioni di protesta, sia qui che a
Washington; indirizzi di avvocati specializzati nella difesa delle
libertà individuali; un lungo elenco di ong e movimenti della società
civile a cui appoggiarsi per combattere insieme contro la svolta
reazionaria. Il volantino distribuito all’ingresso dà il tono della
serata: “Impariamo come impegnarci, mobilitarci e organizzarci per
reagire alle nostre paure”.
Uno dei primi relatori, Norman Siegel
dell’American Civil Liberties Union, chiarisce subito lo spirito
dell’assemblea di quartiere: «Nessuno venga a dirci per l’ennesima volta
che ha vinto Hillary perché ha avuto 2,5 milioni di voti in più. Non
serve a niente recriminare, la legge elettorale è quello che è, abbiamo
perso di brutto, ora rimbocchiamoci le maniche e prepariamo da subito la
nostra rivincita». L’invito viene accolto. Non è una serata di
piagnisteo, è l’inizio di un programma di lavoro. «Voglio vedervi qui
ogni mese, una volta al mese, d’ora in avanti — ci avverte la Rosenthal —
perché venire qui stasera non deve rimanere il vostro unico momento di
partecipazione. Cosa ci ha insegnato l’ultima elezione? Che le decisioni
le prende chi agli appuntamenti c’è».
Si alternano alla tribuna gli
interventi dei cittadini e quelli degli attivisti dei movimenti di base.
Qualcuno allenta la tensione con una battuta di spirito: «Il mio medico
di famiglia, il dottor Zimmermann, ha visitato così tanti pazienti
sotto stress dopo l’8 novembre, che è convinto dell’esistenza di una
Sindrome Trump». Effettivamente siamo in un quartiere
ultra-progressista, l’Upper West Side di Manhattan ha votato per Hillary
al 79%, un plebiscito superiore perfino a quello della California. Lo
sgomento è reale, c’è chi pensa che l’autodifesa va organizzata subito, e
in senso letterale. «La polizia di New York — ci informa la Rosenthal —
segnala un aumento del 110% nei crimini di odio razziale. Sono saliti
del 50% anche i gesti di anti-semitismo denunciato». In questo quartiere
ad alta densità di ebrei, la vigilanza è contro tutte le forme di
discriminazione e xenofobia: oggi se la prendono con i musulmani o gli
ispanici, domani potrebbe toccare a te. Uno dei motivi di allarme è lo
sdoganamento da parte di Trump della cosiddetta “alt-right”, la destra
“alternativa” che è una galassia di suprematisti bianchi, nostalgici del
Ku Klux Klan. «Ho cominciato a difendere alcuni di voi negli anni
Sessanta — dice l’avvocato Norman Siegel — vi ho tirato fuori dal
carcere dopo gli arresti alle manifestazioni per i diritti civili. È da
quegli anni che non respiravo in questo paese un’atmosfera così pesante,
così angosciosa».
Ma non siamo qui per deprimerci e i messaggi
ottimisti arrivano a fiotte. La Public Advocate che rappresenta noi
cittadini presso il sindaco Bill de Blasio, la giovane afroamericana
Letitia James, ci canta l’elogio del federalismo: «Ricordatevi che ci
sono dei limiti a quello che può fare Trump da Washington. La bandiera
del localismo era stata impugnata dalla destra quando governavamo noi.
Adesso ringraziamo il cielo che la nostra è una Costituzione
federalista». E giù un elenco delle barriere che New York sta già
innalzando. «Siamo una delle 150 città-santuario degli Stati Uniti, dove
gli immigrati sono protetti da regole locali. Il sindaco è determinato:
la polizia locale, che prende ordini solo da lui, non collaborerà con
l’Amministrazione Trump se quelli lanciano la caccia agli stranieri. E
qui da noi anche gli immigrati senza permesso di soggiorno continuano a
godere di alcuni diritti fondamentali: scuola, sanità, una carta
d’identità comunale che li libera dall’incubo della clandestinità». Non
tutti sono così fiduciosi sulle potenzialità della resistenza locale.
Pat Almonrode che parla per conto di 350.org, una delle più importanti
organizzazioni ambientaliste, si dice «sgomento che Trump abbia messo
all’agenzia dell’ambiente un servo dei petrolieri». Poi però anche lui
ci esorta a non disarmare: «Anche in materia di ambiente tante decisioni
le prendiamo qui ad Albany (capitale dello Stato di New York, sede del
governatore democratico Andrew Cuomo, ndr), e abbiamo in agenda
decisioni importanti sulle energie rinnovabili, sulle centrali eoliche
offshore». La serata si chiude in poesia, la Rosenthal ci congeda con
un’iniezione di speranza: «È nelle notti più buie, che in cielo le
stelle brillano più forte».