sabato 10 dicembre 2016

Repubblica 10.12.16
Una spilla da balia per simbolo ma agli “anti” manca un leader
di Anna Lombardi


UNA SPILLA da balia sulla giacca per dire «con noi siete al sicuro». Per dirlo a immigrati, musulmani, afroamericani, latinos, omosessuali: e a tutti coloro presi di mira da Trump. Eccolo il nuovo simbolo delle proteste che dal giorno delle elezioni stanno scuotendo l’America. La “safety pin”, spilla di sicurezza appunto, è l’unico comune a quello che per ora è un arcipelago di sigle unito solo dall’avversione verso il presidente eletto. Un gruppone che marcia insieme, sì, ma ciascuno con il suo slogan e il suo obiettivo. Cacofonia di voci che nei cortei mixa l’antirazzista Black Lives Matter al femminista My body my choice.
Mentre studenti d’ogni razza alludono a se stessi cantando al ritmo della marcia dei marines,
This is what America looks like, a questa somiglia l’America.
«Non siamo ancora di fronte a un movimento» spiega Ralph Young, professore di Storia del dissenso in America alla Temple University di Philadelphia, e autore del saggio
Dissent: The History of an American Idea.
Manca un leader, manca coesione. Ma un obiettivo comune c’è già, la manifestazione di Washington del prossimo 21 gennaio: solo allora capiremo se diventerà una forza capace di focalizzarsi su obiettivi come l’aborto, il razzismo, l’ambiente».
I pullman che porteranno manifestanti da tutta l’America alla One Million Women March, l’appuntamento del 21 gennaio appunto, indetto per protestare contro la misoginia del nuovo presidente sono già sold out.
Ma l’organizzazione di quella che potrebbe essere la più grande manifestazione contro un insediamento presidenziale (nel 1973 a protestare contro Nixon c’erano “solo” 60 mila persone) è «caotica e spontanea» secondo il Washington Post.
«Mai avrei immaginato che sarei tornata a protestare a Washington come ai tempi del Vietnam. Ma se Trump ci riporta agli anni Cinquanta noi rispolveriamo i nostri slogan» dice Patricia Lakin, 72 anni, autrice di biografie di grandi donne americane per bambini, da quella first lady rivoluzionaria Abigail Adams all’aviatrice Amelia Earhart. Le fa eco Melissa Chang, madre colombiana e padre cinese, che non ha votato (ha solo 17 anni) ma protesta sotto la Trump Tower con un cartello dove ha scritto “not my president” in inglese e cinese. «Non appartengo a nessun gruppo. Sulle manifestazioni mi informo su Facebook». Sì, perché sono soprattutto i social a portare la gente in piazza o alle assemblee organizzate nei campus e nei comitati di quartiere. Eventi lanciati da singoli, come la protesta che ha mobilitato 18 mila persone all’Università del Maryland, promossa su Facebook de Olivia Antezana, diciannovenne che a una manifestazione non c’era mai stata. O da sigle d’ogni genere: dai trotskisti di Socialist Alternative, un centinaio di militanti appena, che pure hanno indetto le più partecipate manifestazioni di New York, ai pacifisti di
Answer Coalition che nel 2003 scatenarono le proteste contro la guerra in Iraq. Senza dimenticare organizzazioni più conosciute come Black Lives Matter, l’Arab American Association e quella MoveOn nata nel 1998 per reagire alla minaccia di impeachment verso Bill Clinton che ha già organizzato più di 350 sit-in, o la National Association for the Advancement of Colored People del reverendo Al Sharpton che pianifica una sua manifestazione a Washington, indovinate quando? Nell’anniversario della nascita di Martin Luther King, il 14 gennaio: sei giorni prima del Trump day.