Repubblica 10.12.16
Se il test politico passa da Siena
di Stefano Folli
IN
ATTESA di conoscere la scelta di Mattarella, e al di là del solito
valzer dei nomi, il vero tema di ieri è stato il Monte dei Paschi. Dopo
mesi di ritardi e rinvii, il presidente del Consiglio Renzi, ancorché
dimissionario, è posto di fronte alla necessità di procedere per decreto
al salvataggio pubblico dell’istituto. A meno che non riesca a passare
il tizzone ardente al successore.
LE IMPLICAZIONI economiche e
sociali dell’operazione sono rilevanti e c’è, non secondario, anche un
risvolto politico. Si parla molto di riunire il Paese dopo le nevrosi
del referendum e ci si interroga sul profilo del governo che verrà, dopo
aver stabilito che votare subito non è possibile per via del pasticcio
della legge elettorale. L’intervento sulla banca di Siena può diventare
allora il primo esperimento di coesione nazionale dopo mesi laceranti.
Le
forze politiche di maggioranza e di opposizione che dovranno esprimersi
in Parlamento sul testo del governo avranno due scelte: sfruttare
l’occasione per continuare la campagna elettorale; oppure mostrare quel
senso di responsabilità che è stato invocato in questi giorni come
possibile mastice del nuovo, imminente esecutivo. Si tratta di
verificare come il caso del Monte entrerà nelle dinamiche della crisi:
se prevarrà il processo ai colpevoli del degrado ovvero se emergerà una
linea meno conflittuale del Parlamento, da Forza Italia ai Cinque
Stelle, in nome dell’emergenza. Se così fosse, le Camere non avranno
anticipato le “larghe intese”, né fornito la prova che la grande
coalizione è alle porte. Avranno più semplicemente segnalato la
sospensione, sia pure temporanea, delle ostilità. In fondo il lavoro di
Mattarella si propone lo stesso obiettivo: favorire la nascita di un
esecutivo che, entro certi limiti, rassereni gli animi; e fare in modo
che le convulsioni interne del Pd non si scarichino su Palazzo Chigi in
forme distruttive.
Ecco perché l’intervento sul Monte dei Paschi
merita tutta l’attenzione che si deve a un evento drammatico, sì, ma in
grado di segnare un cambio di passo della politica non meno di quanto
avvenga con il referendum o, appunto, con la nascita della nuova
compagine ministeriale. La quale, a parte le banche, avrà il compito
prioritario di dare al Paese una legge elettorale accettabile senza
rimettersi in tutto e per tutto alla sentenza della Consulta. Anche
perché, come ha osservato il costituzionalista Ugo De Siervo, non è per
nulla sicuro che la Corte in gennaio cavi le castagne dal fuoco a una
classe politica in cerca di alibi.
In questo scenario sembra
tramontare l’ipotesi, peraltro molto vaga, di un nuovo governo Renzi.
Emerge il nome del ministro degli Esteri, Gentiloni, come figura in
grado di dare una duplice garanzia: continuità sulla base della stessa
maggioranza che ha sostenuto l’esecutivo dimissionario; e lealtà al
primo ministro uscente. Forse questo secondo aspetto è quello che più
preme a Renzi. Ci sono questioni di potere che attendono soluzione (il
ventaglio delle nomine di primavera), senza trascurare che gli equilibri
del governo s’intrecciano, come è inevitabile, con i rapporti di forza
dentro il Pd.
Colpisce, in ogni caso, la singolare procedura
inaugurata da Renzi. Una specie di consultazione parallela a quella che
si svolgeva nelle stesse ore al Quirinale. E l’indicazione, fatta
filtrare agli organi di stampa, della preferenza per Gentiloni. In altri
tempi si sarebbe parlato di sgarbo al Capo dello Stato. In ogni caso il
risultato è quello di porre Mattarella di fronte a una specie di fatto
compiuto. Il Quirinale, che deve ancora completare i colloqui
protocollari, si trova a essere scavalcato dai media. Potrebbe non
essere il miglior viatico per il nuovo incaricato. Alla fine, chiunque
sia, Gentiloni o Padoan o un improbabile terzo personaggio, si ripete lo
schema che all’inizio del 1995 portò a Palazzo Chigi Lamberto Dini come
successore di Berlusconi, indicato da questi dopo la caduta del suo
primo governo. Doveva essere poco più di un governo elettorale, ma durò
un anno e mezzo e al termine anche la maggioranza era cambiata.