il manifesto 10.12.16
Il premier, le tessere e i candidati. Il Pd verso il Big Bang
Democrack.
I bersaniani: «Un altro Pd è possibile». Emiliano: Matteo si dimetta
anche da segretario. Pressing su Orlando per il congresso, lui nega.
Un’ora di colloquio fra l’ex presidente e Franceschini. Messaggio
chiaro: comando ancora io
di Daniela Preziosi
ROMA
La crisi di governo incanalata verso la soluzione potrà forse presto
tamponare le fibrillazioni degli organismi europei sul governo italiano.
Ma difficilmente potrà fermare la slavina che si è messa in moto nel Pd
dal momento della sconfitta al referendum e ancora di più dal momento
delle dimissioni di Renzi da Palazzo Chigi. «Non si può rimettere il
dentifricio nel tubetto», direbbe Bersani. Anche se i protagonisti
negano le manovre di sganciamento dal leader, dal momento dell’incarico
del nuovo governo niente più sarà come prima. Gli appelli all’unità
cadono nel vuoto. Ieri il governatore pugliese Michele Emiliano ha
chiesto le dimissioni di Renzi da segretario: «Se ha voglia di guidare
la transizione fino al prossimo segretario lo fa, se si vuole dimettere
prima ci sono i suoi vice.Nella sostanza, dimessosi da premier è come se
si fosse dimesso anche da segretario. Perché è evidente che se ha
sbagliato in una veste ha sbagliato anche nell’altra».
Intanto i
bersaniani convocano per il 17 dicembre un’assemblea pubblica a Roma per
discutere del referendum. Spiegano: «Se il Nazareno non vuole discutere
della vittoria del No, lo facciamo noi. Se non vuole discutere di
quello che deve fare il nuovo governo, noi sì». La polemica è contro la
direzione-comunicazione di mercoledì scorso. In realtà la direzione,
sarà riconvocata all’inizio della prossima settimana. Comunque appena il
presidente Mattarella tirerà le fila.
I bersaniani sono già
moderatamente soddisfatti: ha vinto il No, Renzi è fuori da Palazzo
Chigi; di fatto sarà costretto a fare solo il segretario, realizzando
quella divisione di ruoli da loro sempre auspicata, anche se non è
chiaro quanto resisterà da questa collocazione senza bombardare il
governo (con Enrico Letta ha resistito due mesi); comunque dovrà
convocare il congresso, visto che «elezioni subito» si sta rivelando per
quello che è: solo uno slogan. Il voto non si può celebrare senza una
legge elettorale. E la nuova legge elettorale avrà bisogno di tempo.
Qui
arriva il nodo del futuro del Pd. Da qualche giorno i renziani
diffondono notizie di nuove iscrizioni al partito. A pacchi di mille.
«Non è che scopriamo che in alcune città abbiamo più iscritti che voti
al Sì?» è la battuta degli antirenziani. Ma non è una battuta. È
l’avviso che la battaglia congressuale sarà ruvida.
Certo, a
prendere sul serio tutte le smentite fioccate dai presunti congiurati,
Renzi ha ancora la maggioranza del partito. È ancora il «dominus». Ieri
ha tenuto a dimostrarlo ricevendo due volte il papabilissimo Gentiloni a
Palazzo Chigi e organizzando una sorta di contro-consultazioni in
competizione mediatica con quelle del Quirinale. Il prossimo governo
sarà cosa sua, è il messaggio per gli incerti pronti a cambiare casacca.
Che sono tanti, però. Il ministro Franceschini usa l’ironia per
smentire le «trame» a lui attribuite dalla stampa: «Niente male i
retroscena: ieri ho fatto accordo con Berlusconi,oggi con D’Alema.
Anticipo per i giornalisti: domani con Grillo e poi Salvini» ha scritto
in un tweet. Ma nel pomeriggio è salito a Palazzo Chigi per un’ora di
colloquio con il segretario. Un «chiarimento» cordiale, filtra. Ma anche
in questo caso nulla sarà come prima. Franceschini sarà confermato
ministro? Con il suo plotone di postdemocristiani è la chiave di volta
per cambiare gli equilibri del partito, almeno in parlamento. Anche i
Giovani turchi di Matteo Orfini e Andrea Orlando hanno i numeri per far
ballare Renzi. La pressione su Orlando si fa forte: sarebbe l’unico
candidato in grado di unire ben al di là delle sinistre interne. E
competere a congresso. Non Emiliano, che pure si fa avanti, non Roberto
Speranza, giovane bandiera dell’area bersaniana. Ma lui, il ministro
della Giustizia, smentisce l’intenzione di fare un passo avanti: