Repubblica 10.12.16
Non siamo la sinistra del No, No, No
di Tomaso Montanari
IL
CUORE dell’analisi di Michele Serra sulla Sinistra del no, no, no è
questo: «Il No referendario a sinistra prescindeva largamente dal motivo
del contendere: quel passaggio elettorale serviva effettivamente come
una sentenza senza appello contro il governo Renzi. Tanto è vero che il
Sì di Pisapia gli viene rinfacciato come una colpa che lo rende
improponibile come potenziale leader di una sinistra non renziana:
perché la sinistra o è contro Renzi, oppure non sussiste».
Per molti italiani di sinistra, tra cui chi scrive, le cose non stanno così.
Abbiamo
votato sul merito della riforma, e abbiamo votato No perché essa
proponeva (sono parole di un pacato costituzionalista, tutt’altro che
antirenziano, come Ugo De Siervo) «una riduzione della democrazia».
Matteo Renzi (primo firmatario della legge di riforma) ha proposto uno
scambio tra diminuzione della rappresentanza e della partecipazione e
(presunto) aumento della possibilità di decidere: ha risposto Sì chi
sentiva di poter rinunciare ad essere rappresentato perché già
sufficientemente garantito sul piano economico e sociale. Ha detto No
chi non ha altra difesa che il voto. Basterebbe questo a suggerire che
il No abbia qualcosa a che fare con l’orizzonte della Sinistra.
Ma
c’è una ragione più profonda. La Brexit, la vittoria di Trump e ora
quella del No in Italia hanno indotto molti osservatori e protagonisti
(tra questi Giorgio Napolitano) ad additare i rischi del suffragio
universale: la democrazia comincia ad essere avvertita come un pericolo,
perché la maggioranza può votare per sovvertire il sistema. Perché
siamo arrivati a questo? Perché la diseguaglianza interna agli stati
occidentali ha raggiunto un tale livello che la maggioranza dei
cittadini è disposta a tutto pur di cambiare lo stato delle cose. È qua
la radice della riforma: oltre un certo limite la diseguaglianza è
incompatibile con la democrazia. E allora o si riduce la prima, o si
riduce la seconda. E questa riforma ha scelto la seconda opzione: che a
me pare il contrario di ciò che dovrebbe fare una qualunque Sinistra.
D’altra
parte questa scelta è stata coerente con la linea del governo Renzi:
cosa c’è di sinistra nei voucher, e nel Jobs Act che riduce i lavoratori
a merce, introducendo il principio che pagando si può licenziare? Cosa
c’è di sinistra nel procedere per bonus una tantum che non provano
nemmeno a cambiare le diseguaglianze strutturali, ma le leniscono con
qualcosa che ricorda una compassionevole beneficenza di Stato? Cosa c’è
di sinistra nel “battere i pugni sul tavolo” con l’Unione Europea,
invece di costruire un asse capace di chiedere la ricontrattazione dei
trattati (a partire da Maastricht) imperniati sulle regole di bilancio e
sulla libera circolazione delle merci, e non sul lavoro e i diritti dei
cittadini? Cosa c’è di sinistra nel puntare tutto su una nuova stagione
di cementificazione, attraverso lo smontaggio delle regole (lo Sblocca
Italia)? Cosa c’è di sinistra in una Buona Scuola orientata a «formare
persone altamente qualificate come il mercato richiede, svincolandola
dai limiti che possono derivare da un’impostazione classica e troppo
teorica» (così la ministra Giannini)? Cosa c’è di Sinistra nello
smantellare la tutela pubblica del patrimonio storico e artistico,
condannando a morte archivi e biblioteche, e mercificando in modo
parossistico i grandi musei, detti ormai “grandi attrattori” di
investimenti?
Il punto, in sintesi, è questo: mentre oggi Destra e
Sinistra concordano nel ritenere senza alternative un’economia di
mercato, la Sinistra non crede che dobbiamo essere anche una società di
mercato. E mentre la prima ripete Tina ( there is no alternative), la
seconda lavora per costruire un’alternativa praticabile allo stato delle
cose.
Se il Partito democratico ha fatto di Tina il proprio motto
non è certo colpa di Matteo Renzi: ma questi è stato il più brillante
portavoce di questa mutazione. Se la politica di una società di mercato
non può che essere marketing, il modo di pensare, parlare, governare di
Renzi è stato paradigmatico.
Allora la questione è: ha senso
costruire — come propone Pisapia — una nuova forza di sinistra che nasca
con incorporato il dogma del Tina? La vera sfida è costruire una forza
che ambisca a diminuire la diseguaglianza, e non la democrazia. Una
forza persuasa che «guasto è il mondo, preda / di mali che si
susseguono, dove la ricchezza si accumula / e gli uomini vanno in
rovina» ( Oliver Goldsmith, The Deserted Village): e che sia venuto il
momento di ripararlo, non di limitarsi a oliarne i meccanismi perversi.