sabato 10 dicembre 2016

Corriere 10.12.16
Perché è necessario riflettere su una protesta così ampia
di Paolo Franchi

Ormai è un coro, e le voci che si fanno più sentire, come sempre, sono quelle di chi, fino a pochi giorni fa, aveva cantato le lodi del leader rischiatutto, o si era ben guardato dal criticarlo. Ma non lo sapeva, Matteo Renzi, che di questi tempi, in tutto l’Occidente, con la sola eccezione (forse) della signora Merkel, qualunque governante si sottoponga al giudizio popolare, tanto più nella formula secca di un Sì o di un No, è destinato a schiantarsi? Come gli è saltato in testa di trasformare il referendum su una riforma costituzionale certo non intrisa di autoritarismo, ma tutto sommato modesta e un po’ pasticciata come tutte le nostre riforme, in un giudizio di Dio su di sé e sul suo governo? Che cosa lo ha spinto, un’irrefrenabile megalomania, una sottile quanto irresistibile pulsione suicida, il protagonismo esasperato e arrogante dell’uomo solo al comando?
Si potrebbe continuare a lungo. Ma chi non si è associato ieri al servo encomio può ben astenersi, oggi, dal codardo oltraggio. E provare, piuttosto, a ragionare ancora su questo voto. Già l’altissima affluenza alle urne suggerisce una domanda secca: ma li conosce, Renzi, gli italiani? E mi riferisco, è appena il caso di precisare, agli italiani in carne e ossa di questo dicembre del 2016, non al cosiddetto carattere nazionale, quello per cui, come ha ricordato Pierluigi Battista, Umberto Saba dava della «porca» all’Italia del 18 aprile 1948, Mario Pannunzio parlava di «Italia alle vongole», Giuseppe Saragat se la prendeva con il destino «cinico e baro», che costringeva lui, cresciuto alla nobile scuola dell’austromarxismo, a misurarsi con un Paese tanto rozzo e mediocre, e via anti italianeggiando. Sì, il problema non è solo italiano, investe tutto l’Occidente. Ma la risposta è comunque che probabilmente no, non li conosce, o almeno li conosce molto approssimativamente, proprio come David Cameron gli inglesi, e Hillary Clinton gli americani. Nel suo caso, meno ancora dei sondaggisti. Che stavolta ci hanno preso, seppure approssimando per difetto. E in alcuni casi hanno previsto pure che una partecipazione al voto ben più alta del previsto non avrebbe favorito il Sì.

Renzi e i suoi la pensavano, o facevano mostra di pensarla, esattamente al contrario. Se, soprattutto nel timore del fatidico salto nel buio, fosse andato a votare, in ampia rappresentanza dell’Italia moderata o, se si preferisce, della cosiddetta maggioranza silenziosa, qualche milione di italiani in più, le previsioni (plumbee) della vigilia si sarebbero ribaltate. A dire il vero, non era il solo a vederla così: adesso nessuno lo riconoscerà, ma domenica scorsa, alla vista dei dati parziali sull’affluenza, lo abbiamo sperato (o temuto) in molti, a dimostrazione del fatto che, ad avere una rappresentazione diciamo così vaga dell’Italia reale, Renzi non è il solo. Ma questo non lo assolve dalla colpa, gravissima per un politico, tanto più se smaliziato, di credere alla propria propaganda. E di non sapere, a proposito della cosiddetta maggioranza silenziosa, che, se mai è esistita, oggi non esiste più. O magari, se c’è, ha il suo nucleo, cito Galli della Loggia, nei «tanti italiani che … se la passano tuttora male, talvolta malissimo, e senza speranza», ai quali «sentirsi dire che invece, e contrariamente alla loro esperienza quotidiana, le cose si stavano mettendo bene, deve essere suonata come una beffa». Aggiungerei solo, a questo proposito, che non deve essere un caso se il Sì ha ottenuto i suoi pochi successi là dove sono visibili e tangibili i segni di ripresa (valga per tutti l’esempio, davvero non secondario, di Milano), e ha straperso, oltre che nel voto giovanile (bel problema, per un rottamatore), là dove a parlare di crescita si rischia di passare per matti, a cominciare dal Mezzogiorno. Dove, sia detto per inciso, la protesta è così ampia e radicata che persino un indiscusso campione del cambiamento come il governatore della Campania, Vincenzo De Luca, lo stesso De Luca che pochi anni fa, da sindaco di Salerno, si dichiarava «eterno come il presidente nordcoreano Kim il Sung», è attualmente impegnato (auguri) ad analizzare i perché del trionfo del No nella sua regione, partendo dall’assunto che «ogni votazione è una lezione da comprendere e su cui riflettere».
Sono concetti molto dorotei, curiosi sulla bocca di un soggetto così politicamente scorretto. Ma, caro Renzi, dia retta lo stesso a De Luca, che avrà i suoi difetti, ma è uomo di esperienza: rifletta, comprenda, con tutto il rispetto per Vittorio Foa la mossa del cavallo non riesce quasi mai. E, se può, cerchi di farlo assieme a quel che resta del suo partito, almeno un po’ più di quanto sia avvenuto nell’ultima, surreale riunione della Direzione: sarà un vecchio vizio ma, a sinistra, è quando si perde che si discute più in profondità, e cose da discutere, ne converrà, ce ne sono. Nessuno le chiede di fare come Charles De Gaulle che, dopo la sconfitta nel referendum del 1969, si ritirò a Colombey-les-Deux- Églises, lei ha ancora carte da giocare. Eviti di gettare sul tavolo quella dell’avventura.