Pagina99 3.12.2016
Donne che rifiutano la plastica al seno
Scelte | Si chiama Going Flat. Restare piatte. È un movimento sorto negli Stati Uniti per assistere chi ha subito interventi alle mammelle. E non vuole sottoporsi alla procedura chirurgica della ricostruzione
di Marta Dore
Io, tutto sommato, sono stata fortunata», mi dice Marina, 44 anni, di Milano. «Quando mi hanno diagnosticato un tumore al seno, a 36 anni, lo stavo aspettando. La mia unica paura era non individuarlo in tempo». I test genetici di Marina avevano segnalato una specifica mutazione genetica che alza le sue probabilità di sviluppare la malattia fino al 60 per cento.
«Ho deciso di farmi togliere entrambi i seni. Ho avuto fortuna perché non ho dovuto subire lo svuotamento ascellare e grazie alla mia mu- scolatura da sportiva hanno potuto mettermi subito le due protesi definitive, senza dover inserire prima l'espansore». In un solo intervento di mastectomia bilaterale, Marina si è liberata (quasi del tutto) del- l’angoscia del tumore e ha fatto la ricostruzione del seno. «Per me era importante guardarmi allo specchio e trovare un’immagine simile a quella di prima, anche se come prima non tornerai più, perché le cicatrici restano per sempre».
Le cicatrici sono diventate la bandiera della vittoria di tutte quelle donne che invece hanno deciso che la ricostruzione non la vogliono fa- re. «Non è il seno a fare di me una donna!», è il loro grido di battaglia.
Complici i social network, quelle che erano scelte vissute in solitudine sono diventate condivise, e queste donne, negli Stati Uniti, si sono riunite in un vero movimento, Going Flat (che si può forse tradurre “restare piatte”), che rivendica la libertà di non sottoporsi al lungo procedimento che porta alla ricostruzione del seno dopo una mastectomia, opzione data per scontata dalla maggior parte dei chirurghi come esito del processo terapeutico di un tumore alla mammella.
I motivi del rifiuto sono molti e comprensibili: la ricostruzione nella maggior parte dei casi richiede un secondo intervento a distanza di circa sei mesi da quello di rimozione del seno, magari dopo essere anche state sottoposte alla radioterapia. A seguire, si va incontro a un processo di aggiustamenti chirurgici che può durare anche due anni e più, e non sempre le cose vanno bene: si rischiano complicanze fastidiose, quando non dolorose e menomanti. Senza contare che anche simbolicamente la ricostruzione del seno significa inserire dentro di sé un nuovo corpo estraneo dopo che ce n’è già stato uno tanto spaventoso, il tumore. Sottoporsi alla ricostruzione, insomma, per molte donne significa non chiudere mai il cerchio terapeutico, non arriva- re a mettere la parola fine a un’esperienza deva- stante come è quella di un tumore. In nome di che cosa? Per sentirsi di nuovo donne? «Quella che esige la ricostruzione, è una visione della femminilità connessa a una sessualità nel senso paradossale e biologico del termine: sei una donna soltanto se hai il seno, così come sei una mamma solo se hai partorito realmente», fa no- tare Michela Fusaschi, docente di Antropologia culturale all’Università degli Studi Roma Tre.
Qualche settimana fa il New York Times ha dedicato alle donne di Going Flat un lungo arti- colo, a conferma di come la scelta di restare senza seno faccia scandalo al punto di doverla rivendi- care con forza e orgoglio, al punto di decidere di esporre il proprio corpo ferito sul giornale più noto degli Stati Uniti, su Facebook e durante ve- re e proprie manifestazioni nelle piazze.
Lo scandalo nasce dalla rinuncia a qualcosa che nella cultura occidentale è stato sempre legato alla femminilità e alla sensualità. Perché se una donna sceglie di restare piatta nonostante abbia la possibilità di riavere le curve crea una crepa intollerabile nell’immaginario. «Tanto più che ormai non basta avere il seno, ma bisogna averlo come la medicina estetica dice che de- ve essere: alto, sodo, rotondo. In una parola, perennemente giovane», fa notare l’antropologa Fusaschi. «Oggi i canoni di bellezza sono sempre più connessi all’immaginario della salute, anzi della giovinezza come sinonimo di salute. Ecco perché la scelta di accettare il proprio corpo mutilato e addirittura di esporlo è sconvolgente».
I dati americani confermano che quella di chi si riconosce nel movimento Going Flat è una scelta controcorrente: anno dopo anno, le ricostruzioni del seno dopo una mastectomia sono cresciute e dal 2000 al 2015 sono aumentate del 35 per cento.
E in Italia? Dati sulle ricostruzioni non ce ne sono, ma va detto che la realtà italiana ed europea ha caratteristiche in parte diverse da quella statunitense. «Da noi l’incidenza della mastectomia, soprattutto bilaterale, è nettamente inferiore. Preferiamo un approccio conservativo, quindi con asportazione parziale della mammella tutte le volte che è possibile», fa notare il dottor Secondo Folli, primario di Senologia al-
l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. Ecco perché il problema della ricostruzione qui si po- ne molto meno e non ha dato vita a movimenti analoghi a quello di Going Flat. «Se negli Stati Uniti l’intervento di ricostruzione, a giudicare dall’articolo del New York Times, viene quasi imposto – ma immagino ci siano dietro fattori economici legati alle assicurazioni – da noi è proposto quando possibile, ovvero nel 70 per cento delle mastectomie, e poi discusso con la paziente. Secondo la mia esperienza, a rifiutare la ricostruzione sono solo il 5, massimo il 10 per cento delle donne, per lo più anziane, che non vogliono avere problematiche aperte dopo la malattia. Da noi, poi, anche la ricostruzione, non solo l’asportazione della mammella, è interamente pagata dal Servizio Sanitario Nazionale».
Una differenza fondamentale riguarda nello specifico la mastectomia bilaterale profilattica, che in America è eseguita con molta più disinvoltura che in Italia. Da noi ci sono precise linee guida ed è un'opzione indicata solo se c’è una mutazione genetica ben documentata, che di norma è riscontrata solo nel 2 per cento della popolazione.
«La mastectomia bilaterale a scopo preventivo è un intervento ancora molto di nicchia. E ho visto che, quando è proposta, è proprio il fatto che sia possibile ricostruire le mammelle a incoraggiare le donne a scegliere di farla, anche perché in questi casi spesso la ricostruzione può essere eseguita duante lo stesso intervento di rimozione», ci dice la dottoressa Claudia Borreani, psiconcologa e responsabile della Struttura di Psicologia clinica del- l’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. È più frequente, invece, la necessità di fare la mastectomia di una sola mammella. In questo caso, la ricostruzione va anche a risolvere la gestione di un’a- simmetria che ha forti ripercussioni psicologiche.
«Io mi vedevo storta, sentivo che c’era un pezzo che mi mancava», conferma Silvia, 40 anni,
di Roma. «Ero rimasta senza un seno dopo due anni in cui avevo subito ben quattro interventi per sistemare una ricostruzione che non si era mai stabilizzata. Quando mi hanno diagnosticato il tumore avevo 33 anni, i chirurghi hanno dovuto asportarmi la mammella ma non voleva- no lasciarmi senza seno perché ero giovane e mi hanno messo subito l’espansore, che andava riempito a poco a poco fino a raggiungere la dimensione dell’altro mio seno. In quell’occasione non avevo praticamente scelto, era stato deciso tutto mentre ero sotto i ferri. Dopo qualche mese la protesi aveva raggiunto le dimensioni volute, ma non è mai stata a posto, è stato un tormento, un susseguirsi di interventi per sistemare le continue magagne. Dopo due anni ho preso in mano la situazione e mi sono fatta levare tutto». Silvia è rimasta tre anni e mezzo senza un seno, usava una protesi esterna, scomoda e fastidiosa e non riusciva più a guardarsi allo specchio perché l’a-
simmetria è difficile da accettare. Con calma, dopo tre anni ha deciso di riprovare a fare una ri- costruzione, ha cercato un nuovo centro medico dove ha trovato una chirurga plastica che l’ha ca- pita e seguita in un confronto continuo. Oggi ha un seno nuovo. «Ora va bene, preferisco sempre la mia vera mammella che è morbida e naturalmente mobile, mentre questa è bionica, rigida. E poi non è ancora finita, dovrei fare ancor un piccolo intervento per ricostruire areola e capezzolo... Ma vedremo, ora mi sono accettata ed è questo che conta. Non la bellezza».
Silvia fa parte di Pagaie Rosa, una delle tante associazioni nate per dare sostegno psicofisico alle donne operate per un cancro al seno. Sono gruppi che, in questo clima culturale di grande enfasi sui valori estetici, combattono una batta- glia importante: dare la forza a chi è stata malata e ne porta i segni a non vergognarsi della propria condizione. «Iniziative come quelle del movimento Going Flat o delle altre associazioni per- mettono alle donne di scegliere davvero», fa no- tare la dottoressa Borreani. «Se in una società è accettata solo la perfezione, in qualche modo una donna non ha scelta e non ha vie di uscita. Se in- vece ti viene proposto anche un modello che per- mette di considerare le ferite come segni di una vittoria allora, di fronte a diverse opzioni su come gestire il tuo corpo, puoi scegliere davvero». Per te stessa e non per accontentare lo sguardo degli altri. «Una volta, quando ero ancora senza un seno, un ecografista mi ha chiesto perché mai volevo fare la ricostruzione visto che tanto il marito ce l’avevo. Sono rimasta senza parole. Che cosa c’entrava? Io il seno lo rivolevo per me, non per sedurre gli uomini. A me mancava qualcosa e volevo una qualità di vita migliore. Ma capisco bene anche le donne di Going Flat. Ognuna sceglie il suo percorso e resterà sempre una donna a tutto tondo. Che abbia il seno oppure no».