Corriere 7.12.16
No
Il segnale dai giovani
di Dario Di Vico
La
generazione perduta almeno per un giorno sembra essersi ritrovata e ha
scelto di partecipare. Le analisi del day after si sono incentrate sui
riflessi politici del voto referendario ed è giusto che sia così ma dal
punto di vista sociologico la notizia è questa. Per la prima volta i
giovani hanno contribuito fortemente a determinare un risultato
elettorale e in questo modo si sono quantomeno candidati a diventare un
nuovo baricentro del consenso.
N on è una novità da poco per una
generazione che non ha una sua rappresentanza né tanto meno un sindacato
e che resta abbondantemente esclusa dal mercato del lavoro. Tanto da
configurarsi come lo zoccolo duro della disuguaglianza italiana.
Facciamo però il classico passo indietro e partiamo dai dati che gli
esperti di demoscopia stanno elaborando in queste ore: analizzando i
comportamenti dei giovani dai 18 ai 35 anni la percentuale di chi si è
astenuto vale il 28-30%, i Sì possono essere pesati attorno al 23-25% e i
No invece arrivano a una quota oscillante tra il 47-48%. La vittoria
degli antireferendari è stata dunque schiacciante ma al di là del
risultato contingente è l’elemento di partecipazione — forse sarebbe
meglio dire di autoinclusione — che va valorizzato e sul quale è giusto
investire. È un segnale forte che non deve essere piegato a mere ragioni
di partito o di schieramento. La generazione che paga l’esclusione dal
lavoro persino con l’indebolimento del carattere ha scelto l’urna per
palesarsi e anche chi (il Pd) nella circostanza è stato penalizzato
dalla scelta della maggioranza degli under 35 non può non guardare con
favore alla novità. Pure se nella circostanza ha affossato «le riforme».
È
chiaro che la partecipazione dei giovani è stata favorita domenica
scorsa dal format elettorale semplificato — Sì o No — che ha evitato
agli elettori meno collaudati di perdersi nei dettagli dei programmi di
partito e nella individuazione del candidato giusto. Di conseguenza non è
affatto detto che questo fenomeno debba necessariamente ripetersi alle
prossime Politiche ma non per questo il segnale va ignorato. A
cominciare dal tentativo di capire l’interazione profonda che si è
stabilita tra mondo giovanile e Rete. È stato già detto come il web sia
diventato una forma di rappresentanza sui generis degli under 35, una
modalità profondamente differente dal passato che ha il vantaggio per
chi la usa di far arrivare ovunque la sua opinione e per chi la studia
di poter essere tracciata culturalmente. La Rete anche nelle sue
manifestazioni meno edificanti — all’insegna dell’antropologia negativa —
è comunque un’esperienza di società aperta che si manifesta in un
contesto che non riesce a garantire mobilità e ricambio. In questa
chiave sarà interessante indagare se c’è un rapporto causa-effetto tra
la frequentazione assidua di blog e community e la decisione di usare
l’urna elettorale. Di sicuro i sondaggisti si aspettavano un maggior
tasso di astensione da parte della lost generation e sono rimasti
sorpresi e volendo avventurarsi nel mondo dei numeri si può addirittura
raffrontare il tasso di astensione degli under 35 con il tasso di
disoccupazione anche se riferito solo ai giovani tra i 18 e i 29 anni,
ebbene l’ultimo dato disponibile riferito al primo trimestre 2015 ci dà
32% contro un’astensione — che come già detto — si è fermata tra il 28 e
il 30%. Si è votato più di quanto si riesca a lavorare.
È chiaro
che nel rapporto tra giovani e politica non si può ignorare la
mediazione del Movimento 5 Stelle, l’unica offerta politica italiana
«non anzianista» e che infatti miete consensi tra gli under 35. Tra i
giovani esclusi, la Rete e i grillini si è creato un gioco degli specchi
che fa rimbalzare la frustrazione e il rancore sociale dovuti
all’apartheid lavorativa e li riveste con la critica della modernità,
vero filo conduttore dei comizi di Beppe Grillo. Interrompere questo
flusso di opinioni e questa produzione di egemonia non sarà facile per
nessuno ma la rincorsa populista all’insegna del «dagli alla Casta» non
si è rivelata un’arma vincente. A chi ha dimostrato, votando, di non
voler aggiungere autoesclusione al disagio esistenziale va offerta una
chance. Il riformismo si legittima così.