Limes 15.12.2016
Settant’anni fa Einaudi…
Nel dibattito del 1947 attorno alla ratifica del Trattato di pace, il grande statista ed economista liberale tratteggiava con largo anticipo i problemi che oggi dilaniano l’Europa. Da quell’insegnamento derivano proposte operative per il rilancio del progetto comunitario.
di Ferdinando Salleo
1. «Un’Europa (dove) si osservano rabbiosi ritorni a pestiferi miti nazionalistici (…) improvvisamente si scoprono passionali correnti patriottiche in chi sino a ieri professava idee internazionalistiche» e si vuol elevare «barriere (che) giovano solo a impoverire i popoli, a inferocirli gli uni contro gli altri, a (…) fare a ognuno di essi proclamare esclusive e scomuniche contro gli immigranti stranieri, quasi essi fossero lebbrosi e quasi il restringersi feroce di ogni popolo in se stesso potesse (…) creare ricchezza e potenza».
Questo severo monito sembra sferzare movimenti e partiti che oggi fanno a gara nel vellicare le molteplici disordinate pulsioni alla base di quel nazional-populismo che percorre il Vecchio Continente e flagella l’idea stessa della costruzione europea, paralizzando nel ricatto elettorale domestico il progresso democratico dell’Unione e l’equilibrio politico di molti suoi membri.
Era invece Luigi Einaudi a lanciare l’allarme nel 1947 dall’Assemblea costituente della nuova Italia chiamata a ratificare il Trattato di pace. Riprendendo e aggiornando proprio gli argomenti che trent’anni prima, poco meno di un secolo fa quindi, ritenendo verso la fine della Grande guerra che gli Stati europei fossero ormai divenuti «un anacronismo storico», gli avevano ispirato un fervido, solenne appello a «compiere un’opera di unificazione» dell’Europa, «opera, dico», soggiungeva, «e non predicazione». L’appello appassionato agli italiani perché si schierassero in prima linea per l’unità dell’Europa innervava l’arringa pronunciata alla Costituente a favore della ratifica parlamentare del Trattato di pace dal ministro del Bilancio, vicepresidente del governo De Gasperi. Rispondendo con rispetto a Benedetto Croce – il quale osteggiava la ratifica pur riconoscendo la necessità di eseguirne le dure clausole e affermava che il carattere di «espiazione» contenuto nel trattato come riconoscimento di una colpa avrebbe fiaccato la tempra degli italiani – il grande statista liberale vedeva invece nell’edificazione di un’Europa unita la dimensione necessaria per preservare l’identità storica, politica e culturale del continente. Per l’Italia, ravvisava dolente nella ratifica dell’ingiusto trattato il ritorno attivo di Roma nel consesso internazionale con un ruolo consono agli ideali risorgimentali per «fare opera immediata, tenace, continua alla creazione di un nuovo mondo europeo». Pochi anni dopo, alla Conferenza di Messina i padri fondatori raccolsero l’appello e il 25 marzo del 1957 riunirono nel Trattato di Roma i paesi che vi si riconoscevano.
Dilagano nel nostro tempo, invece, proprio quei miti che Einaudi condannava. E trovano risonanza nei toni aspri e aggressivi di tanti movimenti politici, dal lepenismo dilagante in Francia intriso del tradizionale sovranismo gallico ad Alternative für Deutschland in Germania. A questi si sono aggiunti altri raggruppamenti, come i Veri Finni della pacifica Helsinki e gli analoghi partiti scandinavi e balcanici, i partiti «per la Libertà» di Geert Wilders in Olanda e di Heinz-Christian Strache in Austria. All’ispirazione nazional-populista si richiama, con suggestioni post-imperiali, anche la britannica Ukip e, al di là di questa, si colloca la stessa matrice profonda che ha animato i brexiters. Per non parlare dei variopinti e ululanti movimenti di casa nostra.
Demagoghi «anti-sistema» senza proposte, idee o programmi catalizzano, sfogandola contro l’Europa, l’insoddisfazione che serpeggia insidiosa per la percepita crisi del modello occidentale liberaldemocratico, il discredito in cui si tengono le élite e il sentimento di non essere più rappresentati dai partiti tradizionali. Sono movimenti che sfruttano la rabbia diffusa per propugnare nazionalismo regressivo, localismo nativista e xenofobo, persino razzismo e denunciano il «deficit di democrazia» dell’Unione guardando in realtà al governo autoritario, all’«uomo solo al comando» che ammirano negli esempi russo e turco. Nello stesso tempo, alle frontiere orientali dell’Unione, proprio nei paesi che fino a un quarto di secolo fa, satelliti dell’Unione Sovietica, vivevano il «socialismo reale», governi e partiti nazionalisti e autoritari limitano le libertà civili e politiche che sono a fondamento del demos europeo facendosi alfieri anch’essi del «pestifero mito nazionalistico».
Se Atene piange, Sparta non ride: basti pensare all’incredibile seguito che ha raccolto Oltreoceano un bieco demagogo nazionalista e isolazionista come Donald Trump, la cui aggressiva e aspra propaganda lascerà tracce per molto tempo nel tessuto politico americano.
La crisi in cui si trova l’Europa «avvilita e incerta sulla via da percorrere» – è sempre Einaudi a rilevarlo allora – e la contestuale impopolarità diffusa del disegno dell’integrazione hanno cause che sono state analizzate ben più autorevolmente e si riassumono nella sensazione che l’Unione non sia in grado di corrispondere alle esigenze dei cittadini. Meno ancora lo sono però, come sottolineava lo stesso Einaudi, i governi nazionali inadeguati, se non altro, per la dimensione dei rispettivi paesi di fronte a problemi che ormai trascendono le frontiere a causa della loro complessa natura e della configurazione globale, tanto da poter essere affrontati seriamente soltanto nella maggiore dimensione internazionale.
Con lo sguardo dell’economista, egli vedeva infatti che «questa nostra piccola aiuola europea apertamente palesa la sua inettitudine a sopportare tante sovranità diverse» e condannava le barriere doganali, la limitazione nazionale dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni. Tuttavia, sottolineava da statista, il primato economico «viene sempre dietro, umile ancella, al primato spirituale».
Sull’Europa pesano oggi, per di più, la grettezza contabile della cosiddetta austerità, il diffuso malessere per la crescita economica insufficiente e per la disoccupazione, specie giovanile – che sono poi probabili conseguenze della prima, come scrive il premio Nobel per l’economia Paul Krugman – le resistenze ipocrite di non pochi suoi membri dinanzi alla tragedia delle migrazioni, la sostanziale reticenza sulla sicurezza e sulla difesa comune dei confini esterni dell’Unione, soprattutto l’incapacità delle istituzioni di prendere le necessarie decisioni quando sono poste di fronte alle scelte politiche. I cittadini europei avvertono nell’Unione una vera carenza di governo.
La crisi politica ha origine soprattutto dall’insabbiamento del processo d’integrazione e dall’incapacità decisionale: la dichiarazione del vertice informale di Bratislava dei capi di Stato o di governo e i risultati a dir poco deludenti di quello formale di Bruxelles ci hanno dato ancora una volta la prova dell’inadeguatezza del metodo intergovernativo – che trova massima espressione nel Consiglio europeo – nell’affrontare i problemi fondamentali. Quel metodo che, dopo l’improvvido allargamento del 2004, ha ridotto a una mera conferenza diplomatica la sede in cui i principali responsabili dei paesi europei, preda sempre più delle rispettive esigenze di politica interna e restii al voto a maggioranza, dovrebbero essere chiamati a decidere sugli orientamenti dei «beni pubblici» europei per dare le necessarie direttive alle istituzioni comuni e ai governi. La crescente disomogeneità dei paesi membri fa inoltre scarseggiare la coesione d’intenti tra i governanti, conducendoli a trincerarsi dietro generiche formule che mortificano l’ispirazione ideale e la volontà politica, necessarie invece a guidare decisioni concrete e credibili, che possano risvegliare i cittadini europei alla grande intrapresa.
Sempre Einaudi ci aveva già messo in guardia contro il metodo intergovernativo – «le mere società di nazioni (…) presto diventano congressi vaniloquenti», ammoniva i costituenti. E non mancava di suggerire intanto un rimedio: «I parlamenti di questi minuscoli Stati (…) rinuncino a una parte della loro sovranità a pro’ di un parlamento nel quale siano rappresentati, in una Camera elettiva, direttamente i popoli europei nella loro unità, senza distinzione fra Stato e Stato e in proporzione al numero degli abitanti e nella Camera degli Stati siano rappresentati, a parità di numero, i singoli Stati».
2. Non sembri un paradosso ritenere che in realtà siano sul tavolo non pochi degli strumenti necessari per rimettere in moto il processo politico secondo la geniale intuizione del grande maestro del liberalismo, che anticipava gli accadimenti di tanti anni dopo.
Anzitutto, il parlamento bicamerale è effettivamente emerso dal Consiglio europeo di Lisbona. Infatti, il parlamento europeo, finalmente eletto a suffragio universale a partire dal 1979, rispecchia la visione premonitrice di una Camera dei popoli europei, elegge e legittima la Commissione ed è parte integrante e necessaria della funzione legislativa dell’Unione. Lisbona prevedeva anche una sorta di Camera degli Stati erede del Consiglio ministeriale che avrebbe dovuto essere dotata dei necessari poteri. Istituzione non compiuta del tutto ma rimasta spezzettata con i suoi teorici rappresentanti, i ministri dei vari paesi membri, che siedono nelle riunioni ministeriali «per materia» presiedute dal paese esercitante la presidenza di turno dell’Unione, come in passato. Purtroppo, quindi, la Camera alta giace sottoutilizzata, non meno in fondo dello stesso parlamento di Strasburgo, almeno per quanto riguarda il potenziale istituzionale, presidio della democrazia.
L’autentica delega di sovranità e la sua condivisione, necessarie per governare come Einaudi auspicava, hanno una lunga strada da percorrere, battute in breccia come sono dal nazionalismo, dal sovranismo e dalla sorda resistenza – esaltata oggi dai movimenti anti-europei – di molte forze politiche dei paesi membri attestate sui propri interessi e sospinte dalle indubbie diversità politiche, storiche e ideali che permangono nei paesi membri. Tra la «doppia velocità», l’alibi degli anni Novanta, e l’idea polimorfica delle aree concentriche di sovranità diversamente condivise, si agita quel che resta del dibattito sul futuro di un’Unione politicamente ed economicamente integrata senza peraltro progredire altrimenti sulla via della definizione degli strumenti necessari per attuare un governo europeo, necessario complemento delle istituzioni parlamentari.
Tommaso Padoa Schioppa ci aveva rammentato eloquentemente il nesso inscindibile tra demos e kratos, tra popolo e governo, affinché vi sia la democrazia, «governo del popolo»1. Al momento, invece, si registra una carenza drammatica di governo, per di più in tempi calamitosi per il nostro continente e per gli equilibri mondiali. Tra poco tempo, proprio a Roma l’Europa si prepara a celebrare il compleanno tra chi teme la disgregazione dell’Unione e chi se ne augura il collasso, chi opera perché le contraddizioni sommergano l’edificio faticosamente costruito e chi, dimenticando i grandi progressi dell’Europa unita e i benefici che ha dato ai propri cittadini, si crogiola nell’incertezza intellettuale su cosa fare, se sperare o subire. Annibale alle porte!
L’eterogeneità tra i membri dell’Unione si è accresciuta, infatti, dopo gli improvvidi allargamenti dell’inizio del secolo, quando una visione politica dell’Europa, nobile quanto romantica e persino byroniana, indusse i governi a dimenticare l’obbligo sancito di rispettare scrupolosamente l’endiadi «ampliamento-approfondimento» che avrebbe condizionato al rafforzamento delle istituzioni comuni ogni ingresso di nuovi paesi che sarebbero stati accolti, in tal caso, in un’Europa caratterizzata da un dinamico processo evolutivo. Si è sviluppato, invece, in molti dei membri più recenti un progressivo distacco dal disegno politico che animava i fondatori, a vantaggio di un atteggiamento mercantilista e assistenziale non dichiarato in cui si contano puntigliosamente i profitti concreti che si possono trarre dalle politiche dell’Unione, specie dal mercato unico e dai fondi di coesione, mentre se ne rifiutano gli obblighi di solidarietà e, soprattutto, il di- segno di rafforzamento istituzionale.
Nonostante la ricchezza insita nel confronto continuo delle diversità tra i suoi membri nel patrimonio comune europeo, è un dato di fatto ormai che l’eterogeneità di visione che pervade l’Europa abbia finito per diventare un ostacolo, non solo al progresso istituzionale, ma soprattutto all’efficacia del processo decisionale politico e socio-economico proprio quando più viva se ne avverte la necessità.
Diffuso in tanti rivoli, si avverte infatti un sentimento articolato in accenti che toccano la sopravvivenza stessa dell’Unione e, non meno, contengono il pericolo che questa, attraverso le puntigliose rivendicazioni nazionali, possa persino scivolare quasi inavvertitamente verso una mera zona di libero scambio, come quell’Efta di britannica memoria che si contrapponeva alla nascente Comunità. Non vi è nulla di male di per sé in una zona di libero scambio, a condizione che non sia ostacolo al compimento del grande mercato unico tra i paesi che vi concorrono, e che le istituzioni europee non ne siano vulnerate. Permane sempre, tuttavia, il rischio di favorire, cos' facendo, la possibilità di un’Europa à la carte: occorre qui, invece, esercitare la massima vigilanza per impedire una simile formula, letale per le istituzioni e per il disegno dell’integrazione. All’Europa «esterna» potrebbero aderire altri paesi, non solo quelli euroscettici o restii al progresso politico dell’Unione: possono utilmente esservi accolti gli stessi candidati all’adesione durante il processo di maturazione dei requisiti necessari. Si configurerebbe cos' un’area di paesi destinati a ritrovarsi in tale cerchia secondo le proprie caratteristiche specifiche sino a formare un ampio spazio di collaborazione economica, di scambi e d’investimenti che potrebbe ispirarsi ai recenti progetti euro-americani e al trattato testé concluso con il Canada. La sfera «esterna» sarebbe certo cosa diversa dall’Unione e configurerebbe un altro aggregato europeo destinato a collaborare con proprie caratteristiche in modo complementare con quella vera, con l’Europa della ever closer union dei trattati.
A una simile configurazione binaria potrebbe adattarsi un altro strumento importante che già possediamo. Accanto al rafforzamento delle istituzioni parlamentari e alla necessaria collaborazione tra i parlamenti degli Stati membri, la crescente eterogeneità che si riscontra sempre più, come si diceva, mette fortemente in luce il valore di uno strumento antitetico che già ci offrono i trattati. Si tratta dell’istituto delle «cooperazioni rafforzate» e strutturate tra un gruppo di Stati determinati ad andare avanti nella cooperazione politica, economica e sociale guardando come obiettivo al traguardo dell’integrazione. Metodo che fu adottato, ad esempio, per concludere gli accordi di Schengen che attuavano la libera circolazione dei cittadini, non più solo quella delle merci e dei capitali. La compiuta libertà di circolazione resta, infatti, un presupposto etico e politico dell’autentica piena cittadinanza europea, un principio rimesso in questione oggi, purtroppo, anzitutto dai britannici che si contorcono nelle diatribe del Brexit e poi da quei governi che hanno riscoperto il vecchio e screditato égoisme sacré.
3. Il nucleo dei paesi che hanno adottato la moneta unica, l’euro – o, almeno, quelli più avanzati e omogenei tra loro – potrebbero osare progressi effettivi verso l’integrazione economica e politica. Anche qui, consapevole delle differenze tra gli Stati del continente e del rischio d’immobilismo insito nell’unanimità, Einaudi propugnava «un’Europa aperta a tutti, un’Europa nella quale gli uomini possano liberamente far valere i loro contrastanti ideali e nella quale le maggioranze rispettino le minoranze e ne promuovano esse medesime i fini, sino all’estremo limite in cui essi siano compatibili con la persistenza dell’intera comunità». Propugnava, dunque, che in sede esecutiva si instaurasse come regola il voto a maggioranza, magari qualificata, nello scrupoloso rispetto delle istituzioni comuni dell’Unione.
Una «cooperazione rafforzata» indirizzata anzitutto alle strutture, titolare delle politiche comuni e dotata dei poteri che permettano, nella democrazia del voto a maggioranza, di consolidare un centro motore, sarebbe un autentico governo dei «beni comuni» dell’Europa che consenta agli altri una pur feconda – e, forse, soddisfacente – periferia d’attesa. Del resto, gli sforzi erculei della Banca centrale europea di Mario Draghi richiedono già, per essere ancora più efficaci, la creazione di un potere fiscale accanto a quello monetario, come primo embrione di un governo dell’Unione.
Per contrastare incisivamente nazional-populismo e deriva antidemocratica, ben più che la sterile polemica vocale e la diatriba dei decimali, è attuale oggi l’appello che nel momento più buio della nostra storia Luigi Einaudi rivolgeva agli italiani, a farsi per primi alfieri della costruzione europea per «far trionfare in Europa (…) gli ideali immortali i quali hanno fatto l’Italia unita. (…) Libertà spirituale degli uomini, (…) cooperazione tra i popoli», gli ideali che nel Risorgimento «avevano conquistato alla nuova Italia la simpatia, il rispetto e l’aiuto dell’Europa».
Sarebbe una diuturna, paziente e pertinace azione politica e diplomatica, quella a cui chiamava l’Italia negli anni lontani della rinascita, un’azione però che può trovare oggi alleati e sostenitori nelle forze politiche che vi si riconoscono nei paesi fondatori. Non sono poche, né scarsamente influenti, consapevoli della diffusa preoccupazione per la crisi ideale e dilagante e quasi incontrastata a causa della mancanza di una visione che vi si contrapponga rivolgendosi proprio ai popoli d’Europa e che richiami il demos europeo a riconoscersi unito. Einaudi lamentava «in questo Vecchio Continente un vuoto ideale spaventoso» e concludeva esortando a «non aver timore di difendere le idee le quali soltanto potranno salvare l’Europa: la forza delle idee è ancora oggi la forza che alla lunga guida il mondo».
Parafrasando Renan, è necessario e urgente operare affinché l’Europa torni a essere un «plebiscito di tutti i giorni».
Note
T. PADOA SCHIOPPA, «Demos e Kratos in Europa», lezione alla Biennale Democrazia, Torino, 26/4/2009