Limes 15.12.2016
I tre poteri del pentagono
Il ministero della Difesa può proporre la strategia, nominare i nemici, intercettare e adattare gli ordini provenienti dalla Casa Bianca. Il confronto fra il carisma presidenziale e la burocrazia militare condizionerà la geopolitica americana.
di Federico Petroni
Ogni potere cerca di suscitare e coltivare la fede nella propria legittimità
Max Weber*
1. «Immediatamente dopo aver assunto la carica, chiederò ai miei generali di presentarmi un piano entro trenta giorni per sconfiggere e distruggere lo Stato Islamico». Cosi' il candidato Donald Trump nel suo unico discorso sensato sulla sicurezza nazionale, pronunciato a Philadelphia il 6 settembre 2016 [1].
In guerra, recita un adagio diffuso in America che rammenta la caducità di tutti i piani militari, il nemico ha diritto di voto. Ma non è il solo. A votare sull’uso della forza, uno degli attributi essenziali su cui si misura un potere sovrano, è anche il Pentagono. E non manca di far sentire la propria voce. «Quando usciremo dalle grandi operazioni a Mosul, a Raqqa e altrove, dovremo aspettarci di continuare ad aver a che fare con la prossima evoluzione dello Stato Islamico, che continuerà ad adattarsi», avvertiva il generale Joseph Votel, comandante del Central Command, solo sette giorni prima che Trump pronunciasse i suoi desiderata. Chiara eco del capo di Stato maggiore dell’Esercito, generale Mark Milley, che ad aprile si era espresso cos' sull’Is: «è una dura lotta e non è affatto finita. E nessuno dovrebbe ancora ballare sulla linea d’arrivo. C’è parecchia strada da fare» [2].
La dialettica tra la risolutezza del futuro comandante in capo e la cautela delle sue Forze armate chiama in causa un tema centrale per l’esercizio della geopolitica degli Stati Uniti: la capacità del dipartimento della Difesa e delle branche militari che presiede (per metonimia: il Pentagono) di influire sull’agenda del presidente. In altre parole, il modo in cui una delle culture burocratiche degli apparati dello Stato americano – forse la più cogente – contribuirà a plasmare l’approccio di Washington al mondo, per nulla dettato dall’illusoria icona dell’uomo solo al comando nello studio ovale. Indagarne le dinamiche è sforzo cruciale, soprattutto di fronte all’interessantissimo caso di studio di Donald Trump, come Barack Obama estraneo alla cultura delle relazioni tra civili e militari, alla liturgia della catena di comando e alle inerenti difficoltà e contraddizioni di tradurre in piani bellici le promesse pubbliche.
Il Pentagono incide sulla postura geopolitica degli Stati Uniti esercitando tre poteri. Il primo è di tipo propositivo, derivante dall’essere custode di una specifica visione del mondo che ammanta di imperiale ogni proposizione geopolitica del proprio comandante in capo e sulla quale ha semmai più influenza il Congresso, con il suo potere di spesa. Il secondo è il potere di nominare i nemici, incidendo cos' sul processo decisionale all’interno del Consiglio di sicurezza nazionale, dove i più alti vertici militari e il ministro della Difesa esprimono le loro posizioni sui dossier. Il terzo è il potere di intercettazione degli ordini dello studio ovale, sfruttando la complessità burocratica del dipartimento della Difesa, la leva delle opzioni e l’esclusiva sulla conduzione quotidiana delle operazioni belliche. Vediamoli partitamente.
2. Il Pentagono è la necessità dell’impero istituzionalizzata. La sua Weltanschauung ruota attorno alla massa eurasiatica, la placca continentale decisiva per il controllo del pianeta. Come collane di perle, l’agghindano le principali rotte commerciali, energetiche e dell’informazione del globo che si concentrano in colli di bottiglia decisivi (Suez, Hormuz, Malacca, Gibilterra, Bāb al-Mandab). Le sue terre e i suoi fondali racchiudono enormi riserve naturali e, non a caso, conoscono la maggiore instabilità, tale forse non in termini assoluti, ma per il rischio di trascinare con sé tutto il mondo nel caos. Il Pentagono è chiamato a sorvegliare e manutenere il controllo delle vie di comunicazione – soprattutto marittime e cibernetiche, ma pure aeree e spaziali – cuore della supremazia americana.
Nei decenni quest’esigenza si è stratificata in una dottrina bellica fondata su quattro pilastri: la capacità di accedere velocemente al teatro delle operazioni, qualora si manifesti una minaccia; installare truppe e armamenti prossimi agli snodi critici ma sufficientemente lontani da non essere tenuti sotto scacco dal fuoco nemico; ammassare forze usando carrier strike groups e navi da guerra anfibia; sviluppare periodicamente nuovi vantaggi militari per compensare la riduzione del divario da parte degli avversari (offset strategy) [3]. Poker strategico declinato nell’imperativo di prepararsi per due conflitti simultanei, poi ridimensionato nel più realistico obiettivo di condurre una grande guerra nel Pacifico ed essere in grado al tempo stesso di sostenere l’invio di forze di spedizione in Medio Oriente.
Il tratto imperiale della Difesa americana risiede anche nel sistema di alleanze militari che presiede – gli strateghi citano spesso il fatto che gli Stati Uniti e i loro soci rappresentano due terzi della ricchezza mondiale. Una galassia organizzata attorno a uno scambio che, ridotto all’osso e declinato in varie gradazioni, suona come «protezione per manodopera»: Washington eroga aiuti, armamenti, truppe o lucrosi contratti in cambio dell’interoperabilità fra le proprie unità e quelle indigene. Ossia dell’ancillarità di queste ultime. Motivo per cui difficilmente l’élite marziale rinuncerà ad alleanze come la Nato.
L’approccio al mondo del Pentagono è determinato però anche dalla sua stazza. Primo datore di lavoro al mondo con 3,2 milioni di impiegati (e un budget di 573 miliardi di dollari), non sorprende fino a che punto sia attrezzato a perpetuarsi e a resistere al cambiamento. Tanto da comportarsi come fosse in pace pure nel bel mezzo di due conflitti perduti come Iraq e Afghanistan, spingendo Robert Gates, quinto ministro della Difesa più longevo della storia, ad annotare amaro nelle sue memorie: «Il Pentagono è pensato per prepararsi a una guerra futura, non per combatterne una» [4].
Unico strumento in grado di influenzarne la proiezione: la borsa, prerogativa del Congresso. La Difesa americana continua a pensarsi come «first responder» (definizione del vicesegretario Bob Work) per le crisi in giro per il globo, ossia la prima cui il mondo bussa. Ma la sua capacità di affrontarle è funzione dei finanziamenti stanziati di anno in anno da Capitol Hill, insensibile, almeno dal Budget Control Act del 2011, al grido di dolore proveniente dal Pentagono. Valgano per tutte le parole del penultimo capo degli Stati maggiori riuniti, generale Martin Dempsey: «Abbiamo spesso avuto l’opportunità di concentrarci su una minaccia alla volta. Prima l’Unione Sovietica, poi il peacekeeping, poi il terrorismo. Ora abbiamo un sacco di cose che spuntano tutte assieme, varie sfide che competono per risorse finite e una grottesca incertezza sul bilancio militare. (…) A completare il tutto c’è la nostra incapacità di adottare uno sguardo lungimirante – diciamo vent’anni – (…) tendiamo a guardare alle cose un anno per volta» [5].
Il margine di manovra della Casa Bianca su questi temi è ridotto. Impossibile per esempio lanciare un’iniziativa di ribilanciamento militare, economico, diplomatico verso il Pacifico senza che il Pentagono non la vesta di «confronto fra grandi potenze» (la Cina, nella fattispecie), come puntualmente accaduto nel secondo mandato di Obama, piccato al punto di vietare ai suoi l’uso di questa espressione [6]. Pure rispetto al budget, il presidente si può al massimo porre da mediatore fra le istanze delle Forze armate e il credo del conservatorismo di bilancio che imperversa al Congresso. Una grande sfida nel campo della Difesa per Trump è la priorità da accordare alla rimozione della spada di Damocle della sequestration, gli inopinati tagli orizzontali al budget della Difesa che Capitol Hill si ostina a impugnare, per riportare per esempio l’Esercito a quota 540 mila soldati o affrontare la crisi di preparazione dopo 15 anni di laceranti guerre. Sinora è stato impossibile tagliare i programmi sociali (bersaglio prediletto dei repubblicani più ossessionati dal big government) senza compiere eguali sacrifici sull’altare di Marte.
3. La visione del mondo del Pentagono informa anche un preciso rosario di nemici e minacce che influisce sulle decisioni prese dal Consiglio di sicurezza nazionale e in generale sulla conduzione della geopolitica tout court degli Stati Uniti. La Difesa tende a mettere nel mirino quanti ne minaccino il controllo sull’accesso ai global commons (oltre ovviamente la sicurezza interna): due grandi potenze intente a sviluppare sistemi d’interdizione d’area (Cina e Russia), due Stati canaglia dediti al nucleare e alla missilistica balistica (Iran e Corea del Nord), due attori non statali (Stato Islamico e al-Qā‘ida) e la sicurezza cibernetica. In formula: 2-2-2-1, secondo la definizione di Dempsey, solo rimodellata sulle urgenze del momento dal ministro della Difesa uscente Ash Carter [7]. Un simile impianto è destinato a durare perché frutto di culture burocratiche sedimentatesi in decenni di confronto con ognuno degli attori. Di questi avversari e minacce, il Pentagono tenderà inoltre a enfatizzare i punti di forza, piuttosto che le debolezze strategiche, costretto per tema di perdere rilevanza a convincere le branche civili della necessità di mantenere un alto livello di spesa militare anche in periodo di «pace».
La Cina è vista come rivale strategico. Il Pentagono guarda più in cagnesco l’Impero del Centro rispetto agli altri rami civili soprattutto per la percepita indisponibilità dell’Esercito di liberazione popolare a un dialogo equivalente a quello condotto fra le componenti civili, anche di alto livello. Lo testimonia la provocazione da parte dei militari cinesi del supercaccia presentato durante la visita del 2011 di Gates, teso pure a imbarazzare lo stesso governo di Pechino. Anche per questo il personale in uniforme a stelle e strisce ha invocato l’invio di navi e aerei da guerra nel Mar Cinese Meridionale per condurre le cosiddette Fonop (operazioni di libertà di navigazione) in risposta alla costruzione di basi sugli isolotti nelle acque contese, venendo ascoltato solo con un ritardo percepito come inaccettabile [8].
In realtà, il pivot asiatico il Pentagono lo ha effettuato tre anni prima di quello annunciato dall’amministrazione Obama a inizio 2012: risalgono al 2009 le prime tre pietre della Difesa, ossia un discorso di Gates, un memo allora segreto di Marina e Aeronautica sull’Air-Sea Battle, accompagnati dalla legittimazione «esterna» di uno studio su questa dottrina del Center for Strategic and Budgetary Assessment [9].
Se Pechino è l’avversario, la Russia è il nemico per antonomasia. L’annessione della Crimea e la guerra in Ucraina hanno messo in moto un processo di riorientamento del Pentagono sulle capacità militari russe sconosciuto dai tempi del crollo dell’Unione Sovietica e che sta plasmando la forma da far assumere alla U.S. Army del prossimo futuro [10]. Sino al 2014, il dipartimento della Difesa osservava Mosca unicamente attraverso le lenti delle infruttuose trattative sullo scudo antimissili balistici – peraltro per nulla intenzionato a far concessioni per compiacere il Cremlino [11] – e nemmeno la guerra dei cinque giorni alla Georgia del 2008 aveva impedito di tornare alla routine quotidiana.
Oggi è diverso. Contrariamente alla Casa Bianca e al dipartimento di Stato, il Pentagono tende ad avere uno sguardo a 360 gradi sull’odierno attivismo russo, a collegare gli scacchieri strategici su cui operano le Forze armate e l’intelligence di Mosca, temendo che un risultato strappato in Siria possa comportare una concessione per esempio sull’Ucraina. (Si rilevi di passaggio l’insospettabile vicinanza di questa visione con il concetto di terza guerra mondiale a pezzi, promosso da papa Francesco e rifiutato da Obama [12].) Non si fatica a riconoscere l’ostilità alle iniziative diplomatiche tese al dialogo e alla tregua con il ministro degli Esteri Sergej Lavrov in Siria. Senza scomodare l’indimostrabile – per esempio che l’Aeronautica Usa abbia di proposito bersagliato il 18 settembre 2016 il contingente siriano di Dayr al-Zawr per far deragliare l’intesa Kerry-Lavrov – bastino le parole del capo degli Stati maggiori riuniti, generale Joseph Dunford: «Non credo che condividere intelligence con i russi sia una buona idea» [13]. Testimonianza rilasciata al Congresso, con cui il Pentagono condivide l’ostilità totale (strategica nel suo caso, ideologica a Capitol Hill) nei confronti del Cremlino. Con buona pace dei propositi di Trump. Che la Difesa ambisce a circoscrivere, come nel caso del reset del primo Obama [14], a iniziative tattiche o di breve periodo.
Mentre sulla Corea del Nord è difficile non scorgere un allineamento fra tutti i centri nevralgici della geopolitica statunitense [15], il discorso è molto diverso e sfumato per l’Iran. La stipula dell’accordo sul programma nucleare nel luglio 2015 non ha eliminato la decennale inimicizia dei militari americani nei confronti della Repubblica Islamica. Usiamo la dicitura istituzionale non a caso: la nascita stessa a inizio anni Ottanta del Central Command, l’organo che presiede l’organizzazione e la conduzione delle truppe a stelle e strisce in Medio Oriente, è legata alla rivoluzione khomeinista. Non fu tanto il ritiro del Regno Unito a ovest di Suez fra 1968 e 1971 a indurre Washington a colmare il vuoto geopolitico nel Golfo Persico, quanto la combinazione fra l’ostilità del nuovo regime di Teheran e la posizione di raccordo di una Persia diventata instabile fra l’Urss e i giacimenti petroliferi del Golfo. Creando un comando autonomo per evitare che una regione ormai divenuta cruciale fosse attraversata dal confine fra l’area di responsabilità europea e quella pacifica, con tutti i litigi parrocchiali del caso, potenzialmente sfruttabili dal nemico sovietico per confondere le acque [16].
La profondità dell’ostilità fra Forze armate americane e iraniane è ben catturata dall’espressione «guerra crepuscolare» dello storico degli Stati maggiori riuniti David Crist. Un conflitto sottotraccia che ha lasciato visibili cicatrici. Come l’attentato di Beirut del 23 ottobre 1983 in cui persero la vita 299 soldati, fra cui 220 marines. Per non parlare della fornitura, durante l’occupazione dell’Iraq dal 2003, agli insorti iracheni del materiale per costruire i famigerati ordigni improvvisati che hanno mandato sulla sedia a rotelle, quando non al creatore, migliaia di soldati statunitensi [17]. Simili episodi diventano parte della memoria comune trasmessa di recluta in recluta, non solo fra i ranghi più nobili. Questi ultimi devono peraltro confrontarsi con l’imperterrita prosecuzione da parte di Teheran del programma missilistico balistico, attualmente sbandierato al Congresso come evidenza della necessità di continuare a esercitare pressioni sugli ayatollah attraverso le sanzioni.
L’inimicizia non si spinge però a sottoscrivere un’opzione scellerata come bombardare il programma nucleare iraniano, per scongiurare la quale il Pentagono è da sempre in prima linea. Prima segnalando la sua opposizione a benedire un’operazione simile – l’attacco contro il reattore siriano di al-Kibar da parte di Israele nel 2007. Poi assumendosi in prima persona l’incarico di convincere Netanyahu a non colpire le centrali iraniane con la forza bruta [18]. Utile promemoria di come la simbiosi in campo militare tra le Forze armate di Stati Uniti e Israele non spinga le prime a sposare l’agenda strategica del secondo.
4. Resta da esplorare un potere, quello di piegare ordini e programmi presidenziali ai propri interessi. Mentre i primi due sono espressione della cultura del Pentagono, quest’ultimo scaturisce dalla sua organizzazione.
Raramente a dirottare il volere della Casa Bianca è il ministro della Difesa. Non per debolezza della carica – non più il «cimitero per gatti morti» di cui si lagnava il primo a occuparla, James Forrestal, difatti suicidatosi poco dopo averla lasciata – ma perché essa costituisce «un lavoro quasi impossibile», nella definizione dell’accademico Charles A. Stevenson [19], che impone al capo del Pentagono di mandare avanti un’organizzazione titanica, presiedere alla pianificazione bellica e fornire copertura politica alla strategia di sicurezza nazionale. Rari sono i rivoluzionari, tre, secondo lo studioso della Johns Hopkins: McNamara, Schlesinger e Weinberger; più frequenti i pompieri, chiamati a gestire emergenze, e i compagni di squadra, propensi a mediare fra militari e civili.
Il potere d’intercettazione risiede invece nei rami in cui si articola il dipartimento della Difesa, ossia nei servizi – Esercito, Marines, Marina, Aeronautica – e nei comandi combattenti, divisi per area geografica (Nord- e Sudamerica, Europa, Pacifico, Africa, Medio Oriente) e funzione (Forze speciali, Trasporti, Comando strategico). Soprattutto i servizi sono corpi conservatori, ossessionati da un futuro conflitto convenzionale su larga scala, in costante guerra fra di loro per fette di budget e per difendere costosissimi programmi pluriennali ipertecnologici. I comandi geografici drenano risorse a prescindere dalle effettive minacce, motivo per cui il Southern Command continua ad attrezzarsi per una poco probabile grande guerra in America Latina. La loro influenza sulla postura strategica è quasi un tabù negli Stati Uniti e di conseguenza poco studiata. Anche se, rispetto all’èra di Bush junior che aveva concesso loro ampia autorità nell’uso della forza senza autorizzazione presidenziale, nel primo mandato di Obama è stata condotta una corposa revisione di tali ordini esecutivi per circoscrivere questa delega sovrana20.
Un esempio di tali dinamiche viene dall’Afghanistan. Nel 2009, gli Stati Uniti avevano bisogno di parecchie truppe aggiuntive per concentrarle nella battaglia per Kandahar. L’unico ad averne di pronte era il comandante dei marines, generale James Conway, il quale però insisté per tenerli tutti in una sola area di responsabilità e non diluirli nel paese per mantenere il controllo sul loro impiego. I marines furono cos' spediti nell’unica provincia rispondente ai requisiti di Conway, l’Helmand, distorcendo le esigenze della campagna. E per di più facendo rapporto non al comando di Kabul, ma al Central Command [21].
Tuttavia, il settore in cui l’influenza dei servizi è meno scalfibile è quello dell’arsenale nucleare, feudo dello Strategic Command. Gli Stati Uniti mantengono la cosiddetta triade: sottomarini lanciamissili nucleari, missili balistici intercontinentali basati a terra e bombardieri. E lo fanno contro il parere di quasi ogni analisi costi-benefici, a eccezione di quella del Congresso, favorevole alla dispersione per soddisfare quante più circoscrizioni elettorali possibili. Sempre al Congresso era stata promessa, in fase di trattativa per la ratifica del trattato New Start sulla reciproca riduzione delle testate fra Russia e Usa, la modernizzazione della triade, attualmente in fase di lancio e giustificata dal Pentagono con la necessità di mantenere attrattive le carriere in campo nucleare [22]. Non si può non notare anche qui quanto il potere delle burocrazie abbia diluito, fino ad annullarlo, il progetto del presidente di formalizzare un continuo smantellamento degli armamenti nucleari.
All’ordine di usare la forza o di ritirare truppe proveniente dal comandante in capo non ci si può sottrarre. Però lo si può plasmare prima che venga emesso o in corso d’opera. Niente lo dimostra meglio della guerra in Afghanistan, forse l’unico caso nelle amministrazioni Obama e Bush jr. in cui i militari abbiano forzato la mano del presidente su un dossier strategico – tale per le risorse drenate, non per la posta in gioco. Sulla decisione del 2009 di inviare oltre 54 mila soldati di rinforzo nell’Hindu Kush si sono ritrovate a convergere varie spinte difficilmente conciliabili tra loro. Obama, legatosi le mani con la promessa puramente opportunistica in campagna elettorale di sistemare la «guerra giusta», premeva per concentrarsi su al-Qā‘ida; la componente civile, a gradazioni alterne, per limitare gli obiettivi della missione e focalizzarsi al massimo sull’insurrezione talibana; un manipolo di popolari generali convinto di detenere il Verbo (la dottrina della controinsurrezione) per applicarlo al fine di consolidare successi più solidi in aree circoscritte del paese [23].
Di fatto, in Afghanistan sono state le agende a fare la strategia, non il contrario. Nel sanguinoso processo decisionale, i militari hanno usato il classico trucchetto delle tre opzioni (quella desiderata, una al ribasso bollata come pericolosa e una al rialzo palesemente impraticabile) per arrivare a un compromesso in cui nessuno credeva. Tanto che i comandanti succedutisi a Kabul hanno continuato a fare di testa loro. «Sono preoccupato del fatto che il presidente non capisca il piano della campagna», confidava Stanley McChrystal. «Non abbiamo prestato molta attenzione al memo strategico del presidente», ammetteva un assistente di David Petraeus [24]. E nonostante questi due generali abbiano perso – l’ingloriosa fine delle loro carriere lo testimonia – il Pentagono è comunque riuscito a diluire i piani della Casa Bianca di ritirare i soldati americani, spingendola a quasi raddoppiare le truppe che rimarranno a Kabul e dintorni (9.800).
5. A rendere inconcludente la guerra in Afghanistan ha sicuramente contribuito l’avvelenato clima di sfiducia fra Casa Bianca e Pentagono in seguito alla decisione sui rinforzi e riverberatosi su altre missioni (come l’intervento in Libia). Il sospetto di essere messi all’angolo dai generali; le continue fughe di notizie o esternazioni critiche rilasciate dal personale in uniforme alla stampa; la percezione (spesso corretta) che l’uso della forza venga ordinato dai politici non in virtù di una strategia, ma in luogo di essa (do something); la microgestione delle operazioni da parte della Casa Bianca, spinta in certi casi alla pretesa di scegliere gli obiettivi, sono tutti fattori che hanno portato le relazioni fra civili e militari al nadir.
La lotta di potere più interessante nell’ambito della Difesa sotto Trump verte sul tipo di compromesso da negoziare fra Casa Bianca e Pentagono, fra carisma e burocrazia, fra la volubile retorica della campagna elettorale e le confliggenti esigenze del mantenimento della superpotenza. La sua qualità dipenderà dal grado di preparazione sulle questioni strategiche dell’entourage del presidente, incaricato di istruire il nuovo inquilino della Casa Bianca all’esistenza di una specifica cultura burocratica che emana dal Pentagono. Trump potrà anche esigere subitanee vittorie contro lo Stato Islamico, ma dovrà anche ricordare che i militari americani sono tanto restii a entrare in guerra quanto a uscirne. E soprattutto che, una volta sparato il primo colpo, sul teatro delle operazioni si alza una coltre di nebbia tale da sottrarre al presidente il controllo sul preferito corso d’azione. Come successo a Obama, costretto dall’inverno 2015 ad accettare che in Iraq il boccino passasse dalle predilette forze speciali a quelle convenzionali [25]. O come in Afghanistan, dove, ricorda il giornalista Rajiv Chandrasekaran, «la burocrazia americana è diventata il peggior nemico dell’America» [26]. Amaro promemoria di come la nazione più potente al mondo controlli molto, ma non la sua agenda.
Note
* M. WEBER, Economia e società, Milano 1961, Comunità, vol. 1, p. 208.
1. Il discorso è disponibile all’indirizzo, goo.gl/UivLac
2. Entrambe le citazioni in «Trump vs. the Generals», Defense One, 29/6/2016, goo.gl/xMQXXa
3. Un punto di vista interessante da cui osservare la postura del Pentagono è quello di Andrew Marshall, cfr. A. KREPINEVICH, B. WATTS, The Last Warrior: Andrew Marshall and the Shaping of American Modern Defense Strategy, New York 2015, Basic Books. Per i contorni della offset strategy, si veda F. PETRONI, «Compensa e domina: il Pentagono e la terza offset strategy», Limes, «Dopo Parigi, che guerra fa», n. 1/2015, pp. 141-147; cfr. anche il recente convegno del Center for Strategic and International Studies, goo.gl/u4wEIx
4. R.M. GATES, Duty: Memoirs of a Secretary at War, New York 2014, Random House, p. 116.
5. «Notes from the Chairman: A Conversation with Martin Dempsey», Foreign Affairs, settembre-ottobre 2016, pp. 2-9.
6. «White House Tells the Pentagon to Quit Talking about “Competition”», Navy Times, 26/9/2016, goo.gl/3eow8U
7. Cfr. il primo discorso di Dempsey sul tema del 14/5/2014 all’Atlantic Council (goo.gl/UrrYNg) e l’ultimo in ordine di tempo di Carter del 22/9/2016 in Senato, goo.gl/SkbLEU
8. «A U.S. Admiral’s Bluntness Rattles China, and Washington», The New York Times, 6/5/2016, goo.gl/mVKHCr
9. «The Pentagon’s Fight over Fighting China», Politico, luglio-agosto 2016, goo.gl/GgiHDr
10. «The Secret U.S. Army Study that Targets Moscow», Politico, 14/4/2016, goo.gl/4jIQjw; «Inside the Pentagon’s Fight over Russia», Politico, 2/11/2015, goo.gl/LAEDIF
11. R.M. GATES, op. cit., p. 402.
12. Cfr. D. FABBRI, «Obama non vuole la guerra grande dunque la prepara», Limes, «Dopo Parigi, che guerra fa», n. 1/2015, pp. 113-120.
13. Cfr. goo.gl/9vcFWk
14. Cfr. la ricostruzione di Hillary Clinton nelle sue memorie Hard Choices, pp. 295-319.
15. Vedi per esempio, «Military and Security Developments Involving the Democratic People’s Republic of Korea – Report to Congress», Office of the Secretary of Defense, gennaio 2016, goo.gl/I3ibR3
16. Cfr. la ricostruzione di D. CRIST, The Twilight War: The Secret History of America’s Thirty-Year Conflict with Iran, London 2012, The Penguin Press, pp. 33-48, 53-56.
17. «Iran Linked to Deaths of 500 U.S. Troops in Iran, Afghanistan», Military Times, 14/5/2015, goo.gl/yIMvSG
18. Cfr. D. FABBRI, «Cos' il Pentagono ha bloccato la guerra all’Iran», Limes, «Una certa idea d’Israele», n. 5/2013, pp. 123-129.
19. C.A. STEVENSON, SECDEF: The Nearly Impossible Job of Secretary of Defense, Lincoln, Nebraska 2006, Potomac Books, 2006.
20. Cfr. R.M. GATES, op. cit., pp. 451-452.
21. L’episodio è narrato in R. CHANDRASEKARAN, Little America: The War within the War in Afghanistan, New York 2012, Knopf, pp. 64-66.
22. Cfr. il discorso pronunciato dal segretario Carter il 26/9/2016 alla base aerea di Minot, North Dakota, goo.gl/uIYmqJ
23. La ricostruzione migliore è ancora quella di B. WOODWARD, Obama’s Wars, New York 2010, Simon & Schuster.
24. La prima citazione in R.M. GATES, op. cit., p. 483; la seconda in R. CHANDRASEKARAN, op. cit., p. 322.
25. «This Is the New Pentagon’s Strategy to Defeat ISIS», Military Times, 14/1/2016, goo.gl/CZbvSe
26. R. CHANDRASEKARAN, op. cit., pp. 328-331