Limes 15.12.2016
L’importanza di essere cattolico
Negli ultimi decenni numero e influenza dei cattolici nell’America che conta sono cresciuti. Tra le cause, l’alto livello di istruzione dei seguaci della Chiesa di Roma, ma anche il declino relativo dell’impero americano. Che cosa (non) cambierà con Trump.
di Manlio Graziano
1. Una delle prime decisioni del neoletto presidente Donald Trump sarà di nominare il nono giudice alla Corte suprema: la promessa di un giudice conservatore e sicuramente pro-life, decisivo negli equilibri interni della Corte, è stata la trump card con cui il candidato repubblicano si è aggiudicato i favori della maggioranza dell’elettorato religioso in una campagna eccezionalmente discreta su quel fronte. Sugli altri dossier della sua agenda religiosa, è assai probabile che il futuro inquilino della Casa Bianca farà affidamento sul suo vice, il cattolico Mike Pence.
Come in tutte le elezioni presidenziali, le prime nomine governative – i candidati alla vicepresidenza – sono state decise qualche mese prima della fatidica data di novembre. E per la terza volta consecutiva, anche quest’anno i prescelti erano cattolici. In una campagna anomala come quella del 2016, non c’è da stupirsi che i candidati alla vicepresidenza siano passati quasi inosservati. Resta il fatto che quella carica apparentemente decorativa è invece parte essenziale del complesso sistema di checks and balances della politica americana: una sorta di controassicurazione della presidenza, nonché un suo indispensabile complemento, una copertura dei fianchi scoperti in termini sia politici sia regionali, caratteriali, e anche religiosi. E dal 2008 a oggi, i candidati alla vicepresidenza di entrambi i partiti hanno coperto, tra le altre cose, il fianco cattolico dell’elettorato americano.
Se tre coincidenze fanno una prova, come avrebbe detto Agatha Christie, qui abbiamo la prova di una continuità ormai indiscutibile della vita politica americana recente: la costante e crescente presenza di cattolici ai vertici del paese. Una presenza che ha raggiunto il suo apogeo sotto la presidenza Obama: oltre al vicepresidente Joe Biden, erano cattolici più di un terzo (dodici su trentadue) dei ministri che si sono succeduti nelle diverse amministrazioni (1); due dei quattro chiefs of staff della Casa Bianca, Bill Daley e Denis McDonough; i tre speaker della Camera dei rappresentanti (Nancy Pelosi 2008-12, John Boehner 2013-15 e Paul Ryan 2015-17); il leader democratico della Camera (Pelosi); i tre successivi direttori della Cia (Leon Panetta, John Brennan e David Petraeus); il direttore dell’Fbi, James Comey e tre dei quattro vicedirettori che si sono succeduti; il capo dello Stato maggiore riuniti, Martin Dempsey; entrambi i capi di Stato maggiore dell’Esercito nominati da Obama (lo stesso Dempsey e Raymond Odierno); il comandante dei Marines, Joseph Dunford Jr; il capo di Stato maggiore dell’Aviazione Mark Welsh; il capo delle Operazioni navali Jonathan Greenert (cioè cinque dei sette membri degli Stati maggiori riuniti); infine, l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale Thomas Donilon (2010-2013). Da ultimo, ma non certo per importanza, valga il caso della Corte suprema dove, fino alla scomparsa di Antonin Scalia a febbraio, sedevano sei cattolici su un totale di nove, cioè quasi la metà dei tredici giudici supremi cattolici nominati nel corso di tutta la storia degli Stati Uniti. Inoltre, se si prendono in considerazione anche le cariche elettive, si scopre che dal mid-term del 2014 all’8 novembre 2016, il 31% dei membri del Congresso e il 38% dei governatori degli Stati erano, anch’essi, cattolici.
Considerando che i cattolici americani rappresentano tra un quinto e un terzo della popolazione totale, secondo i criteri di calcolo (2), non si può fare a meno di convenire che essi sono largamente sovrarappresentati ai vertici politici, di sicurezza e militari del paese. Le ragioni, ovviamente, sono molte; ma volendone isolare le due più importanti, si potrebbe sostenere che questa sovrarappresentanza è dovuta essenzialmente al fatto che i cattolici fanno parte della popolazione più istruita e ricca del paese, e che la loro importanza politica è cresciuta in maniera direttamente proporzionale al declino relativo degli Stati Uniti.
L’agiatezza media della popolazione cattolica americana contrasta vividamente con le rappresentazioni ormai stereotipate delle difficoltà e degli stenti patiti dagli immigrati irlandesi, italiani, polacchi e altri nelle prime fasi della loro integrazione nel Nuovo Mondo. Benché la loro memoria sia costantemente tenuta viva, quei tempi sono ormai lontanissimi: l’ascesa sociale dei cattolici è infatti iniziata fin dagli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Secondo uno dei più importanti storici del cattolicesimo negli Stati Uniti, Charles Morris, «tra il 1950 e il 1970, il ritmo di avanzamento socio-economico dei cattolici [americani] fu più rapido di quello di ogni altro sottogruppo religioso, a eccezione degli ebrei»(3). Un sondaggio Roper and Gallup segnalava già nel 1964 che il reddito dei cattolici aveva superato in media quello dei protestanti; più di vent’anni dopo, nel 1987-88, il loro reddito era «del 14% superiore a quello dei protestanti bianchi»(4). Quella tendenza non si è arrestata: tra il 1987 e il 2011 la percentuale di cattolici privi di diploma superiore è scesa dal 21 al 14%, mentre quella dei laureati è salita dal 20 al 27%; e se nel 1987, solo il 20% delle famiglie cattoliche disponeva di un reddito superiore ai 40 mila dollari, nel 2011, erano diventate il 60%5.
Dalla fine degli anni Quaranta, i cattolici hanno cominciato a esigere un ruolo più attivo e maggiori responsabilità nella gestione delle parrocchie. Quell’attività – insieme alla più tradizionale attività di direzione dei sindacati – ha contribuito a promuovere sul terreno il lento e progressivo germogliare di una classe dirigente cattolica. Nel 1955, uno degli intellettuali cattolici più celebri della storia americana, John Tracy Ellis, lamentava ancora l’assenza di una élite intellettuale e politica cattolica: «In tutta la storia del paese, ci sono stati solo cinque cattolici membri della Corte suprema e quattordici ministri su un totale di 301 dal 1789, di cui dieci nominati dopo il 1933»(6). Quella tendenza sembrò proseguire sotto Kennedy: nel suo primo governo c’erano due ebrei ma un solo cattolico (suo fratello Robert), mentre altri due cattolici furono nominati in seguito (Anthony Celebrezze nel 1962 e John Gronouski nel 1963); alla Corte suprema Kennedy nominò un episcopaliano e un ebreo, interrompendo la serie dei Catholic Justices inaugurata da Roosevelt e proseguita da Truman e da Eisenhower. All’epoca dell’articolo di Ellis, infine, solo il 14% dei deputati e il 10% dei senatori erano cattolici, contro una percentuale sulla popolazione ormai superiore al 20%.
2. I cattolici cominciarono a occupare massicciamente i vertici politici degli Stati Uniti sotto l’amministrazione Reagan. Fra di essi, un terzo dei ministri più importanti (undici su trentatré) (7), quattro dei sei consiglieri per la Sicurezza nazionale (8), gli elementi di spicco dello speech writing team del presidente (9), il direttore della Cia, William Casey, e l’ambasciatore all’Onu Vernon Walters (1985-89). Non meno importante, Ronald Reagan fu il primo presidente a nominare ben tre cattolici alla Corte suprema (Robert Bork, Antonin Scalia e Anthony Kennedy) su sei nomine totali, dopo che l’ultimo cattolico, William Brennan, era stato investito da Dwight Eisenhower nel 1957.
Malgrado quell’inedita pletora di cattolici investiti ai vertici delle istituzioni, dei legami tra Ronald Reagan e il cattolicesimo la storia ricorda la presunta complicità con Giovanni Paolo II nella lotta contro l’«impero del Male» e il ristabilimento delle relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Non c’è dubbio che gli anni 1980-88, in cui Ronald Reagan e Karol Wojtyła furono contemporaneamente alla testa delle rispettive istituzioni, segnano una svolta nelle relazioni tra Stati Uniti e Vaticano, anche se occorre ricordare che, a fianco della comune volontà di sfidare Mosca (per scopi diversi), la Chiesa e gli Stati Uniti avevano anche profondi dissensi su altri dossier cruciali, come l’America Latina, le Filippine, il Medio Oriente, la politica economica e la corsa agli armamenti. Ma la contemporanea «promozione» dei cattolici all’interno ci suggerisce che, dietro a quel riavvicinamento, ci fosse qualcosa di più (10).
Tutto porta a credere che quel «qualcosa di più» fosse il declino relativo degli Stati Uniti. Un fenomeno che si potrebbe semplificare cosi': la forza degli Stati Uniti continua a crescere, in termini assoluti, ma la forza dei suoi rivali e competitori cresce a ritmi più rapidi; quindi, essendo il potere nel mondo una quantità finita (in espansione, ma comunque finita), più aumenta quello delle potenze concorrenti e più diminuisce, in termini relativi, quello degli Stati Uniti. Secondo Henry Kissinger, quel declino sarebbe già stato visibile alla fine degli anni Sessanta, quando «l’èra del dominio quasi totale della scena mondiale da parte dell’America stava giungendo alla fine»(11). Con la sua energica politica economica, il suo fermo atteggiamento nei confronti dell’Unione Sovietica e il suo costante richiamo ai valori tradizionali, Ronald Reagan riusci' per qualche anno a ridestare l’ottimismo degli americani nascondendo gli effetti del declino relativo del paese. Un declino che, a dispetto della ristrutturazione economica e delle vittorie sul fronte della guerra fredda, stava comunque proseguendo, come dimostrò l’ascesa giapponese degli anni Ottanta, e come dimostrò l’inizio di un pubblico dibattito proprio su quel tema, dibattito cui il libro di Paul Kennedy – The Rise and Fall of the Great Powers – diede un contributo decisivo: «Coloro che devono prendere le decisioni a Washington», scriveva Kennedy nel 1987, «devono affrontare il fatto imbarazzante e duraturo che la somma totale degli interessi e degli obblighi internazionali degli Stati Uniti è oggi di gran lunga superiore alla capacità del paese di difenderli tutti simultaneamente» (12).
Oggi gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza mondiale, e conservano una quantità di risorse – economiche, finanziarie, educative, demografiche – che dovrebbero garantir loro un margine di sicurezza per parecchi anni ancora. Nondimeno, il loro declino relativo è proseguito, e la loro capacità di garantire tutti i loro interessi e obblighi internazionali si è ulteriormente indebolita. In un celebre saggio del 1990 lo storico Bernard Lewis individuava le «radici della rabbia musulmana» nel «sentimento di umiliazione, [nel]la crescente consapevolezza, tra gli eredi di una civiltà antica, orgogliosa, e a lungo dominante, di essere stati superati, schiacciati e travolti da coloro che essi guardavano come loro inferiori» (13). Quella stessa disamina potrebbe servire oggi a capire le radici della rabbia e della frustrazione di una parte sempre più cospicua della popolazione di quei paesi – Regno Unito, Francia e Stati Uniti in primo luogo – che si ritengono l’incarnazione «di una civiltà antica, orgogliosa, a lungo dominante, nel momento in cui si rendono conto di poter essere «superati, schiacciati e travolti da coloro che essi guardavano come loro inferiori».
Non si tratta solo di nostalgia per i bei tempi andati. I bei tempi, andandosene, hanno portato via con sé molti privilegi di cui quei paesi godevano. Negli Stati Uniti i salari sono gli stessi degli anni Settanta, benché la produttività del lavoro sia più che raddoppiata; e, per la prima volta nella storia del paese, le generazioni attuali sanno che vivranno peggio delle generazioni precedenti. L’economista Robert Samuelson calcolava nel 2013 che la crescita americana era destinata a ridursi di un terzo rispetto alla norma in vigore dal 1950 fino alla crisi del 2008; e in effetti, tra il 2006 e il 2016, la crescita annua media si è aggirata intorno al 2%, proprio un terzo inferiore alla media fino al 2006. Samuelson paventava che questa «nuova norma economica» potesse alla lunga minacciare «di sconvolgere il nostro ordine politico e sociale»(14). Ancora prima di Samuelson, Stephen Cohen e Bradford DeLong avevano avvertito nel 2010 che, «quando i soldi non ci sono più», una grande potenza (nella fattispecie, gli Stati Uniti) può contare «ancora per un certo periodo» sulla collocazione internazionale del suo debito per garantire ai propri cittadini un livello di vita elevato; nondimeno, «la fine è inevitabile: bisogna diventare, riconoscere di essere diventati, e comportarsi come un paese normale. Per l’America, sarà uno shock»(15).
3. Che una delle forme di quello shock potesse materializzarsi in Donald Trump era impossibile da prevedere, e anche solo da immaginare, nel 2010. Ma lo shock, invece, era prevedibile e previsto. Da Ronald Reagan in poi, uno dei tentativi di attutire l’impatto del momento in cui gli americani si sarebbero dovuti accorgere di vivere in un «paese normale», e di perdere progressivamente i privilegi che discendevano dall’essere un «paese eccezionale», è stato di appoggiarsi sulla Chiesa cattolica. Più il disorientamento morale si fa intenso e più diventa forte la tentazione di ancorarsi a un’istituzione che fa dell’orientamento morale uno dei cardini della sua influenza sociale. Beninteso, gli Stati Uniti dispongono ancora di cospicue risorse morali, ma il «supplemento d’anima» che può garantire la Chiesa cattolica è tutt’altro che sgradito. Tanto più che l’altro cardine dell’influenza sociale della Chiesa è il «supplemento di servizi» che essa offre. Nel 2014, la Chiesa cattolica negli Stati Uniti gestiva direttamente o indirettamente 5.368 scuole elementari, 1.200 scuole secondarie e 225 tra università e college (frequentati da 787.574 studenti, quasi il doppio dei 409.471 del 1965), per un totale di circa 3,5 milioni di studenti e più di 200 mila tra insegnanti e professori. Nel sistema sanitario, essa controllava una rete di 549 ospedali (con 88,8 milioni di pazienti, più di cinque volte i 16,9 milioni del 1965), a cui si devono aggiungere case di cura, case di riposo, pensionati e molte altre istituzioni caritative che, nel 2013, hanno prestato assistenza a più di nove milioni di persone16. Senza contare i 65.227 impiegati e i 239.165 benevoli della rete caritativa cattolica recensiti nel 2010.
Tutti i gruppi religiosi dispensano prestazioni sociali più o meno gratuite; ma l’offerta cattolica è di gran lunga superiore: è il secondo fornitore di servizi del paese dopo lo Stato federale, ancor più prezioso in tempi di sovraindebitamento e restrizioni di bilancio. Non è un caso che, accogliendo papa Francesco alla Casa Bianca nel 2015, Obama abbia aperto il suo discorso riconoscendo il debito contratto: «Tutti gli americani, di ogni origine e di ogni fede, stimano al suo giusto valore il ruolo che la Chiesa cattolica svolge nel rafforzare l’America. (…) Ho visto in prima persona come, ogni giorno, le comunità cattoliche, i sacerdoti, le suore e i laici danno da mangiare agli affamati, guariscono i malati, accolgono i senzatetto, educano i nostri figli. (…) Le organizzazioni cattoliche servono i poveri, officiano ai detenuti, costruiscono scuole e case, e fanno funzionare orfanotrofi e ospedali»(17).
Nell’agenda georeligiosa di un presidente degli Stati Uniti, il rapporto di fiducia con la Chiesa e con i cattolici ha dunque un’importanza primordiale. Neppure un candidato anomalo e «ribelle» come Donald Trump ha potuto fare a meno di scegliere un cattolico come candidato alla vicepresidenza: per tutte le ragioni di cui sopra, e per controbilanciare l’ostilità della gerarchia nei confronti dell’ipotesi di costruzione del muro tra Stati Uniti e Messico, ipotesi su cui Trump è stato bacchettato dal papa in persona.
4. La campagna elettorale per le presidenziali del 2016 è stata la prima, almeno dagli anni di Jimmy Carter e Ronald Reagan, in cui il caratteristico God Talk della politica americana è stato messo in sordina. Nel 2010, gli autori di The Disappearing God Gap? confermavano che, ormai, gli elettori americani impongono «test religiosi informali ai candidati – specialmente ai candidati alla Casa Bianca»(18). Sottrarsi a quel test era costato caro a candidati come Michael Dukakis nel 1988 e a John Kerry nel 2004. Molti hanno attribuito almeno una parte dello scacco subito da Mitt Romney nel 2012 all’accento sbagliato del suo God Talk. Eppure, nel 2016, il God Talk si è trasformato in un God Whisper, un mormorio appena udibile.
Una delle ragioni di questa sordina è senza dubbio il fatto che tutte le attenzioni sono state calamitate dalla personalità ingombrante del neoeletto presidente, dal suo linguaggio e dai suoi slogan iperbolicamente provocatori. Ma un’altra ragione potrebbe essere scovata nella parentesi di una frase scritta nel 1999 a spiegare le ragioni della «desecolarizzazione» del mondo, cioè del ritorno imperioso delle religioni sulla scena politica – in particolare negli Stati Uniti: «L’incertezza», scriveva il sociologo Peter Berger, «è una condizione che molti trovano difficile da sostenere; perciò, ogni movimento (non solo religioso) che prometta di offrire o di rinnovare delle certezze ha un ampio mercato davanti a sé»(19). Gran parte di coloro che cercano controveleni alle reali o potenziali tossine dell’incertezza li hanno trovati questa volta nel verbo agnostico di Donald Trump.
L’illusione di una possibile ricostruzione chirurgica della sovranità lacerata dalla globalizzazione ha gravemente contaminato molti di coloro che avvertono la frustrazione morale e materiale di non essere più parte «di una civiltà antica, orgogliosa, a lungo dominante». Il successo popolare ed elettorale dei fautori di frontiere e di muri si installa stabilmente nel panorama politico mondiale. Ma questo non significa che il ruolo e il peso della religione in politica ne sia indebolito. Le certezze offerte da Donald Trump, da Boris Johnson o da Marine Le Pen poggiano sulle sabbie mobili della campagna elettorale, le cui promesse – come ebbe a dire una volta un celebre politico francese – «impegnano soltanto chi ci crede». Le certezze che offrono le religioni hanno invece una lunga storia dietro di sé, e per questo godono – piaccia o meno – di una più solida e più duratura popolarità. Agli occhi dei bisognosi di protezione, comunque, la protezione offerta dalle frontiere e quella offerta dalle forze celesti possono benissimo essere, e nella maggior parte dei casi lo sono, complementari: essi troveranno Chiese disposte a sostenerli, e non faranno gran caso dell’opinione ufficiale della Chiesa cattolica, come prima di loro generazioni di cattolici hanno continuato a usare profilattici, a divorziare e a fare la comunione a dispetto delle direttive severe della Chiesa in merito.
La scarsa visibilità di un’agenda georeligiosa dei candidati alla presidenza degli Stati Uniti è invece una novità. Ma una novità che non farà che amplificare nel corso dei prossimi quattro anni il ruolo e il peso di coloro che, al contrario, un’agenda georeligiosa ce l’hanno. Non il ruolo delle più di trentamila Chiese e chiesucole evangeliche, prive di coerenza e di organizzazione, e ormai sempre più perplesse circa i loro una volta chiassosi endorsements politici. Ma piuttosto, ancora una volta, quello della Chiesa cattolica nella sua nuova dimensione panamericana di Chiesa «in uscita»: una Chiesa che ha deciso di fare della questione delle migrazioni il nuovo principio non negoziabile attorno cui coagulare le sue battaglie di influenza e di sviluppo. E i nuovi cardinali americani appena nominati da papa Francesco corrispondono proprio all’identikit dei «cultural warriors» di cui la Chiesa ha oggi bisogno per imporre la sua agenda anche negli Stati Uniti. Anzi: soprattutto negli Stati Uniti.
Note
1. John Kerry (segretario di Stato), Leon Panetta e Chuck Hagel (Difesa), Ken Salazar (Interno), Tom Vilsack (Agricultura), Hilda Solis e Thomas Perez (Lavoro), Kathleen Sebelius (Salute), Julian Castro (Abitazione), Ray LaHood (Trasporti), Ernest Moniz (Energia); Jeh Johnson (Sicurezza interna).
2. Esistono infatti almeno tre contabilità diverse del numero di cattolici negli Stati Uniti. Basandosi sui battezzati (l’unica contabilità valida universalmente per la Chiesa perché, secondo le sue regole interne, chi è battezzato è cattolico a vita), nel 2014 vi sarebbero stati 96 milioni di cattolici americani, cioè circa un terzo della popolazione del paese. Il secondo criterio contabilizza i cattolici self-declared, un dato ricavato da un’inchiesta, l’American Religious Identification Survey (Aris), i cui risultati sono utilizzati dall’U.S. Census Bureau per determinare la composizione religiosa della popolazione; secondo l’ultima inchiesta, del 2008, i cattolici sarebbero il 25% della popolazione americana, cioè, all’incirca, 76 milioni di persone. Secondo la terza contabilità, dell’Official Catholic Directory (Ocd) che prende in considerazione solo i fedeli registrati nelle parrocchie e che frequentano regolarmente le cerimonie religiose, i cattolici americani nel 2014 sarebbero 66,6 milioni, cioè il 20,8% della popolazione.
3. CH. MORRIS, American Catholic: The Saints and Sinners Who Built America’s Most Powerful Church, New York 1997, Times Books, p. 256.
4. A. GREELY, The Catholic Myth: The Behavior and Beliefs of American Catholics, New York 1990, Touchstone, p. 73.
5. W. D’ANTONIO, «New Survey Offers Portrait of U.S. Catholics», National Catholic Reporter, 24/10/2011.
6. J.T. ELLIS, «American Catholics and the Intellectual Life», Thought: A Review of Culture and Idea, Fordham University Quarterly, n. 30, autunno 1955.
7. Il primo segretario di Stato Alexander Haig, il primo e l’ultimo segretario al Tesoro, Donald Regan e Nicholas Brady, il secondo segretario alla Difesa Frank Carlucci, il segretario all’Interno William Clark Jr., il segretario all’Agricoltura Richard Lyng, il primo e l’ultimo segretario al Lavoro, Raymond Donovan e Ann McLaughlin, la segretaria alla Sanità Margaret Heckler, il secondo e il terzo segretario all’Educazione, William Bennett e Lauro Cavazos.
8. Richard Allen, William Clark Jr., Robert McFarlane e Frank Carlucci.
9. Peggy Noonan, Pat Buchanan, Bob Reilly, Car Anderson e Tony Dolan.
10. Per un’analisi più dettagliata, rimando al mio In Rome We Trust. L’ascesa dei cattolici nella vita politica americana, presentazione di S. Romano, Bologna 2016, il Mulino.
11. H. KISSINGER, Diplomacy, New York 1995, Simon & Schuster, p. 703.
12. P. KENNEDY, The Rise and Fall of the Great Powers: Economic Change and Military Conflict from 1500 to 2000, New York 1987, Random House, p. 515.
13. B. LEWIS, «The Roots of Muslim Rage», The Atlantic Monthly, vol. 266, n. 3, settembre 1990.
14. R.J. SAMUELSON, «The Shutdown Heralds a New Economic Norm», The Washington Post, 14/10/2013.
15. St.S. Cohen, J. BRADFORD DELONG, The End of Influence: What Happens When Other Countries Have the Money, New York 2010, Basic Books, pp. 2-3.
16. Frequently Requested Church Statistics, Center for Applied Research in the Apostolate (CARA), Washington DC, 21/10/2014.
17. whitehouse.gov, 23/9/2015.
18. C. SMIDT, K. DEN DULK, B. FROEHLE, J. PENNING, ST. MONSMA, D. KOOPMAN, The Disappearing God Gap? Religion in the 2008 Presidential Election, New York 2010, Oxford University Press, p. 18.
19. P. BERGER, «The Desecularization of the World», in P. BERGER (a cura di), The Desecularization of the World: Resurgent Religion and World Politics, Grand Rapids, Michigan 1999, Wm. B. Eerdmans Publishing, p. 7.