La Stampa TuttoScienze 14.12.16
Giuseppe Remuzzi
«Presto modificheremo anche il nostro Genoma ma non vogliamo creare bambini su misura»
intervista di Simona Regina
L’altruismo?
«È la chiave dell’evoluzione». Le migrazioni? «Ci hanno reso quello che
siamo». Giuseppe Remuzzi, coordinatore delle attività di ricerca
dell’Istituto Mario Negri di Bergamo, propone le sue riflessioni su
alcune delle scoperte biomediche più recenti e affascinanti nel saggio
«Siamo geni», edito da Sperling&Kupfer. E ci accompagna in un
viaggio dall’origine della vita al futuro che ci attende. Un futuro -
spiega - in cui ci addenteremo nei segreti del genoma, «perché dal
genoma dipende tutto di noi: quello che pensiamo e quello che facciamo. E
lo studio del Dna cambierà quasi certamente il modo di fare medicina».
Come si trasformerà la medicina?
«Analizzando
il Dna, possiamo conoscere di cosa rischiamo di ammalarci. E queste
informazioni possono essere utili per prendere le dovute precauzioni. A
livello individuale ci possono indurre a cambiare stile di vita, ma non
solo. Possono essere usate per pianificare interventi di sanità
pubblica: screening mirati a seconda del profilo genetico. Ancora i
costi elevati non lo consentono, ma in futuro ogni medico avrà nel
computer il profilo genetico dei suoi assistiti».
Si tratta però di informazioni delicate, che bisogna imparare a gestire: non è così?
«Oggi
già sappiamo che, se uno dei genitori è malato di cuore, il rischio che
anche il figlio ne soffra aumenta di due volte, così come se uno dei
nostri parenti di primo grado ha avuto un cancro del colon o della
prostata rischiamo anche noi. Questione di geni. Le analisi del Dna
forniscono molte informazioni, anche se non sempre facili da
interpretare e per questo è necessario che i medici vengano formati per
gestirle al meglio, e con garbo, e fornire supporto ai pazienti. Sapere,
per esempio, che un ragazzo potrà avere problemi di dipendenza da alcol
o nicotina o altre droghe può servire a proteggerlo, ma la
predisposizione genetica potrebbe anche diventare un alibi per non
smettere».
Oggi non solo conosciamo sempre più i geni che agiscono
sul nostro stato di salute, ma abbiamo imparato a modificarli e così ci
si chiede: come saranno i bambini di domani?
«Gli scienziati
sanno fare “gene editing”, hanno imparato, cioè, a modificare il genoma:
ci si possono inserire porzioni di Dna o rimuoverne altre e si può
sostituire la parte di Dna che contiene la variante genetica da
eliminare con una sana. Se mi chiede se il “gene editing” sarà usato per
modificare il genoma, francamente penso di sì e presto: ma non si
tratta di progettare bambini su misura. Si tratta di correggere anomalie
genetiche, quelle che sono responsabili di tante malattie rare».
Spesso,
però, c’è l’ostacolo della burocrazia: per esempio la legge 40 che, in
Italia, regolamenta la procreazione assistita o le disposizioni sul fine
vita, tema a cui lei ha dedicato il libro «La scelta». Come si deve
agire?
«La legge 40 era in contrasto con la medicina e il
buonsenso. Per non parlare dei limiti alla ricerca con le cellule
staminali embrionali: le possiamo usare, ma non le possiamo produrre
nemmeno da embrioni sovrannumerari. In Italia, spesso, la ricerca
medico-scientifica diventa mero terreno di scontro politico senza dare
ascolto alla voce degli scienziati. Ecco perché sono d’accordo con la
linea degli Usa: non si possono prendere decisioni per la collettività
senza la consulenza degli scienziati competenti in materia. Questo
dovrebbe valere anche per chi legifera in Italia, altrimenti si rischia
di ripetere errori già fatti in passato».
E’ vero che dare più ascolto alla scienza è utile anche per mettere a tacere intolleranza e razzismo?
«Chi
nega ai migranti qualsiasi opportunità di integrazione non sa, forse,
che siamo migranti da sempre e che così siamo diventati più forti: lo
dimostra l’analisi del Dna. Incrociandosi con i Neanderthal, l’Homo
sapiens ha acquisito nuovi geni che hanno rafforzato il sistema
immunologico. Inoltre il nostro successo come specie dipende dal modo in
cui collaboriamo con gli altri. È così adesso ed è stato così per le
civiltà del passato e sarà determinante per il futuro. Collaborare aiuta
ad affrontare le sfide e questo migliora la specie».