La Stampa 9.12.16
Nel Medio Oriente in guerra la grande sconfitta è Riad
La monarchia saudita non riesce a riformarsi, il sunnismo rischia di frantumarsi. E in Francia cresce l’islamo-gauchismo
di Francesca Paci
C’erano
una volta le piazze arabe, croce e delizia dei satrapi locali.
Polverizzata dal disfacimento del mondo sunnita quell’icona non funziona
più, ci dice Gilles Kepel: né come spettro d’unità trans-nazionale
agitato contro l’Occidente né come il suo opposto rivoluzionario
manifestatosi nel 2011. Il celebre islamista ha appena pubblicato in
Francia il suo nuovo saggio La fracture (Gallimard) e ragiona dei
cambiamenti in corso nella sponda Sud del Mediterraneo, un terremoto dai
cui effetti non è e non resterà immune l’Europa.
Divamperà infine l’evocatissima guerra tra sunniti e sciiti?
«Quanto
accaduto negli ultimi anni in Medio Oriente ha portato alla ribalta il
confronto tra sunniti e sciiti a un livello tale da superare quello
tradizionale tra Israele e mondo arabo musulmano. Nel mio recente
viaggio in Israele sono stato al confine con la Siria, 40 km rimasti
finora stabili. Oggi lì esistono tre frontiere: a Nord ci sono
l’esercito di Damasco e Hezbollah, al centro c’è Al Nusra, ossia Al
Qaeda, al Sud c’è Daesh. Sono tutti in guerra tra loro e nessuno attacca
Israele, che di tanto in tanto apre le porte ai feriti anche per avere
informazioni».
Il vero perdente di questa partita è il mondo arabo sunnita?
«Finora
la geopolitica sciita nella regione si era mossa sull’asse Teheran,
Baghdad, il Barhein e poi Damasco, con un po’ di appoggio dei russi che
non avevano altra scelta. Dall’altra parte c’era il blocco sunnita,
ossia gli arabi più la Turchia dei Fratelli Musulmani. Dopo le
distruzioni arabe, come chiamo io le rivolte del 2011, questo secondo
blocco si è andato sfaldando sotto la spinta dei Fratelli Musulmani,
allora vincenti in Turchia, in Qatar, nell’Egitto di Morsi, in Tunisia e
in parte nella Libia di Belhaj. Quando i Fratelli sono crollati in
Egitto e sono retrocessi in Tunisia, dove, come nel Marocco di
Benkirane, hanno capito di non poter fare a meno della borghesia laica e
francesizzata, il Nord Africa ha preso una strada diversa da quella
mediorientale: da una parte marocchini e i tunisini e dall’altra turchi,
qatarini e gli esuli egiziani che in Europa, soprattutto in Francia,
stanno portando avanti una forte offensiva culturale sui giovani. In
mezzo c’è il riposizionamento dell’Egitto, il più grande paese sunnita
che, sia pur per l’odio del presidente al Sisi contro Daesh e la
Fratellanza, sta virando verso l’Iran: la conferma si è avuta
recentemente a Baku, dove a un grande convegno dell’islam post sovietico
e sciita ha partecipato l’università cairota di al Ahzar».
L’Iran cavalca gli eventi o ha un suo piano espansionista?
«I
neo-con americani, ossessionati dalla responsabilità saudita nell’11
settembre, hanno sostenuto gli sciiti in Iraq spostando l’equilibrio nel
campo sciita. È stato il primo colpo alla potenza sunnita e il dono
involontario dei neo-con alla loro nemesi iraniana. Di fatto la
sconfitta della rivolta sunnita in Iraq non è dipesa tanto
dall’intervento militare della coalizione quanto dalla pressione delle
masse sciite appoggiate da Hezbollah che ora, dopo aver lasciato ai
sunniti le zone senza petrolio, controllano, insieme ai curdi, l’Iraq
utile. È lì che inizia l’espansione iraniana. In Bahrein la popolazione
sciita si è «iranizzata» dopo le rivolte del 2011 represse con l’aiuto
dell’esercito di Riad (che attraversò il ponte tra i due Stati il lunedì
per evitare l’imbottigliamento dei tank nel traffico dei sauditi
diretti ai bordelli di Manama). La pressione dell’Iran sulla penisola
araba è reale, ma si manifesta in un contesto preciso».
Che posto ha la guerra in Yemen in questo contesto?
«Un
tempo in Yemen c’erano i sunniti al Sud e al Nord, sulle montagne,
c’era lo zaydismo, una setta di tipo sciita ma vicina ai sunniti al
punto da pregare negli stessi luoghi. Gradualmente la pressione del
wahabismo sul Nord ha spinto gli zaydi tra le braccia dell’Iran dando
avvio alla sciitizzazione della setta che poi ha preso il nome della sua
famiglia più importante, gli Houti. Oggi gli Houti sono una sorta di
Hezbollah yemenita che si serve delle stesse tattiche mordi e fuggi per
sfidare non Israele ma Riad. Il principe saudita Bin Salman ha tentato
di costruire la sua legittimità con un’azione contro gli Houti e ora lì
c’è una guerra ignorata dai media ma tremenda. Quando poi al Sisi è
andato al potere Riad ha sperato che emulasse Nasser e mandasse
l’esercito in Yemen, ma il presidente egiziano ha rifiutato».
La crisi del mondo sunnita corrisponde con la crisi del Golfo?
«Con
il crollo del prezzo del petrolio la situazione interna in Arabia
Saudita si è aggravata, l’ultima crisi nel settore costruzioni ha visto
licenziare stranieri ma anche sauditi. Il “sistema Golfo”, che dal 1973
ha fatto perno su Riad fungendo da motore economico del mondo sunnita,
ha ora un problema di distribuzione della rendita a cui è legata anche
la retromarcia egiziana. Credo che il greggio non tornerà mai a quota
100 dollari, l’unica con cui i sauditi potevano far girare il
meccanismo. Oggi Riad vede allontanarsi da un lato il Nord Africa e
dall’altro la Fratellanza, centrata su Ankara e Doha. L’icona della
perdita di potere dei sunniti è Aleppo, la caduta di Aleppo sarà la
consacrazione della sconfitta saudita. Sullo sfondo c’è l’altra grande
sfida: la “visione 2030” di Bin Salman che ambisce a modernizzare il
Paese creando una borghesia lavoratrice ha un grosso limite, la sue
riforme sono di sostanza ed è difficile farle coincidere con la
permanenza del wahabismo. Il grande dramma del Medio Oriente è insomma
la frammentazione del sunnismo attraverso l’agenda dei Fratelli
Musulmani, il crollo del petrolio, il nazionalismo curdo, la nuova
alterigia americana verso i sauditi dovuta allo shale oil. La situazione
è grave ma attenzione, sebbene i sunniti stiano perdendo la massa
demografica a lungo termine è sunnita».
Che partita gioca la Turchia?
«Per
ragioni non chiare anche Ankara sta virando sulla Russia. Il sunnismo
turco si è sempre mosso su due assi, quello di Erbakan, che non prendeva
la borghesia, e quel mix di Fratellanza e non Fratellanza rappresentato
da Erdogan e Gülen che invece ha portato al potere l’Akp. Ora però
Erdogan vuole eliminare Gülen e per farlo ha rispolverato l’alleanza tra
Fratellanza e nazionalismo turco. Come? Con la questione curda, perché
da un lato molti gulenisti come Said Nursi sono curdi e dall’altro il
tema cementa il nazionalismo. Per questo per Erdogan i curdi sono oggi
la priorità assoluta, assai più della caduta di Assad. Si dice che la
svolta sia avvenuta a marzo, quando i servizi turchi hanno scoperto che
delle armi date dall’America ai curdi siriani erano passate ai curdi del
Pkk e hanno deciso di orientarsi verso i russi».
L’asse tra Riad e Russia è solo tattico o può essere strategico?
«Nulla
è detto, perché c’è una convergenza tra russi e sauditi sul prezzo del
petrolio, i due Paesi sono alleati contro gli americani. Quanto al suo
fronte interno, Mosca ha usufruito delle debolezze dell’Occidente,
l’Europa divisa, la Francia senza Presidente, l’Italia confusa, la
Brexit, l’opinione pubblica occidentale sedotta dal “putinismo”, ma
sotto sotto il Pil russo è pari a quello spagnolo, meno di quelli
francese e italiano. Putin è un giocatore ma sul lungo termine i
fondamentali economici e politici non ci sono. Gli resta l’alleanza con
l’Iran che comunque ha una sua base, perché il nemico islamico di Putin è
la Cecenia sunnita, lo spettro russo».
L’Europa che fa, sta a guardare?
«La
maggiore sfida dei prossimi anni è la ricostruzione dell’Europa.
L’Europa ha sempre funzionato con il motore franco-tedesco, l’arrivo
della Gran Bretagna in qualche modo è stato disfunzionale. Chissà che la
Brexit non possa servire a rimettere in moto l’ingranaggio. Poi c’è il
Medio Oriente, dove bisognerà capire se la debolezza dell’Arabia Saudita
si tradurrà in un ridimensionamento del pensiero salafita. Quest’ultima
è una questione che riguarda il Medio Oriente ma anche noi, perché quel
modo di pensare l’islam che rifiuta la mescolanza con la società
europea è terribile, soprattutto in Francia, dove si fonde con la
frustrazione sociale delle periferie generando quella forma di nuova
rivendicazione che io chiamo “islamo-gauchismo”».