La Stampa 9.12.16
Il paradosso della Costituzione
Difesa
oggi dagli antipartito, 70 anni fa nel mirino degli “apolitici”
dell’Uomo Qualunque. Bobbio li definiva il “pantano in cui finirà per
impaludarsi il rinnovamento democratico”
di Giovanni De Luna
Il
paradosso del referendum del 4 dicembre è questo: la Costituzione del
1948 è stata vittoriosamente difesa dalle forze politiche che ne hanno
sempre criticato il carattere «comunista» (Berlusconi e la Lega) o
denunciato la fissità «talmudica» (così Grillo, nel 2011 sul suo blog).
Il paradosso è anche più evidente se lo si confronta con le polemiche
che - tra il 1945 e il 1947 - accompagnarono il varo della Carta
Costituzionale.
Allora, il passaggio dalla dittatura
alla democrazia fu accolto con sospetto e diffidenza da una larga fetta
dell’opinione pubblica, abituata da venti anni di fascismo a considerare
la politica una pratica «inconcludente» e incline a guardare agli
uomini dei partiti con la diJffidenza dovuta a chi svolgeva «non
un’attività disinteressata al servizio della collettività e della
nazione, cercando invece di procurare potere, ricchezza, privilegi a sé
stesso, alla propria famiglia, fazione, clientela elettorale». Queste
frasi - tratte da uno dei tanti rapporti dei carabinieri che allora
funzionavano come oggi i sondaggi di opinione - fotografavano un diffuso
sentimento «antipartito» che si tradusse negli impetuosi successi
elettorali dell’Uomo Qualunque.
La nuova Repubblica
Anche
tra le file del Partito d’Azione - al quale oggi viene attribuita la
paternità della Costituzione - all’inizio la forma partito era vista con
sospetto. La nuova Repubblica che nasceva dalla Resistenza avrebbe
dovuto puntare direttamente sugli uomini (con un rinnovamento della
classe dirigente) e sulle istituzioni (con un allargamento della
partecipazione politica fondata sulle autonomie e sull’autogoverno). Lo
scriveva un giovane Norberto Bobbio (non aveva ancora 40 anni): «Una
responsabilità pubblica ciascuno può assumerla dentro o fuori dei
partiti, secondo le sue capacità e le sue tendenze, e magari meglio
fuori che dentro».
Ma proprio i suoi articoli di allora sul
quotidiano Giustizia e Libertà ci consentono oggi di capire che intorno
alla Costituzione la partita si giocò essenzialmente tra la politica e
l’antipolitica, meglio - come si diceva a quel tempo - tra gli
«apolitici» e gli uomini dei partiti. Il qualunquismo nascondeva dietro
la maschera della «apoliticità» e dell’«indipendenza» una lotta senza
quartiere ai partiti del Cln, giudicati come il lascito più
significativo e più pericoloso della Resistenza. BJobbio lo diceva
esplicitamente: «gli indipendenti […] non sono né indipendenti, né
apolitici. Sono politici, ecco tutto, di una politica che non è quella
dei comitati di liberazione o del fronte della Resistenza».
«Vizi tradizionali» italiani
L’«apoliticismo»
(per Bobbio «l’indifferenza o addirittura l’irrisione per ogni pubblica
attività in nome dell’imperioso dovere di lavorare senza ambizioni né
distrazioni per la famiglia, per i figli e soprattutto per sé») si
traduceva in una critica alla «politica di partito» che, scriveva,
«lusinga e quindi rafforza inveterate abitudini, vizi tradizionali del
popolo italiano, incoraggia gli ignavi, fa insuperbire gli ottusi e gli
inerti [...], offre infine a tutti gli apolitici un motivo per allearsi,
facendo di una folla di isolati una massa organica, se non organizzata,
di persone che la pensano allo stesso modo e hanno di fronte lo stesso
nemico [...] generando di nuovo quel pantano in cui finirà per
impaludarsi lo sforzo di rinnovamento democratico dello Stato italiano».
Per
gli uomini della Resistenza il nemico era quindi diventato quella
«sorta di alleanza dei senza partito», «scettica di quello scetticismo
che è proprio delle classi medie italiane», alimentata «da un dissenso
di gusti, un disaccordo di stati d’animo, uno scontro di umori, una gara
di orgogli, dai quali null’altro può derivare che invelenimento di
passioni, impacci all’azione ricostruttrice».
La Carta strumentalizzata
Sembra
che Bobbio parli proprio di quell’estremismo di centro che caratterizza
oggi una parte della società italiana e un movimento come quello di
Grillo. Allora fu un passaggio decisivo per l’approdo a una sua convinta
adesione alla «democrazia dei partiti», frutto di una riflessione
approfondita su un «modello», quello inglese, che, partendo dai
capisaldi fondamentali delle origini (la divisione dei tre poteri, la
monarchia costituzionale e il governo parlamentare), era stato in grado
di rinnovarsi, spostando progressivamente verso il basso, verso il corpo
elettorale, rappresentato e diretto dai partiti, il baricentro del
sistema politico.
Le cifre del referendum del 4 dicembre ci dicono
come l’elettorato dei movimenti più tipicamente antipartito (Cinque
Stelle e Lega) abbia votato massicciamente per il No (l’80%), affiancato
da una ristretta fascia di elettori appartenenti al Pd (23%) o alle
varie sigle accampate alla sua sinistra. Essere salvata da quelli che
volevano affossarla, adesso come nel 1948: da questo duplice paradosso
cronologico la Costituzione esce come schiantata, degradata a puro
pretesto, con una torsione innaturale che la espone, in futuro, a ogni
tipo di uso strumentale.