giovedì 8 dicembre 2016

La Stampa 8.12.16
La rabbia di Bersani
“Vuole un governissimo senza discuterne”
I renziani temono di non avere i numeri per accelerare le urne L’ex segretario: se rimuove la sconfitta allora non ha capito nulla
di Carlo Bertini

Se non è ancora un tutti contro tutti ci manca poco: di congresso Pd nessuno parla, Bersani ritiene che non serve farlo subito, Cuperlo al rovescio, interpretando bene cosa va dicendo il leader nelle ultime ore. E cioè che se non si vota, lui lo farà questo congresso, spianando tutti quelli che lo osteggiano. Fuori dal Palazzo del Nazareno, gipponi della polizia presidiano il terreno, i tifosi del premier sbandierano cartelli e fischiano i compagni della minoranza come Davide Zoggia che arrivano alla spicciolata. Dentro, quando Renzi finisce di parlare e Orfini rinvia il dibattito sine die, la faccia basita di Walter Tocci che sale sul podio per dire la sua e viene rispedito al suo posto, è la raffigurazione plastica di cosa pensa la minoranza. Michele Emiliano già tuona da sfidante di Renzi, «sono senza parole: convocare centinaia di persone da tutta l’Italia per confezionare una scena del genere è una mortificazione della democrazia interna e della dignità del partito». Bersani, che pure aveva avuto un abboccamento tramite i rispettivi plenipotenziari col leader per concordare questo canovaccio del monologo, poi sbotta in un capannello con Epifani, Zoggia, Speranza. «Per carità di patria non facciamo polemiche, chiaro? Ma se dopo che hai preso una botta come questa non apri una riflessione nel partito, allora non hai capito cosa è capitato».
Nel salone della Direzione l’aria è irrespirabile, facce tese, qualcuno accenna battute e sorrisi, ma l’elaborazione del lutto è lontana da venire. «Ma come si fa ad andare da Mattarella a dire la posizione del Pd senza discuterla, senza parlare di cosa è successo, esattamente come ha fatto dopo le amministrative? Vabbè, ora dobbiamo mettere al sicuro il Paese», allarga le braccia l’ex leader. Che insieme ai suoi ha di nuovo la sensazione di esser stato raggirato, perché negli abboccamenti pre-riunione loro avevano chiesto che tra giovedì e lunedì fosse convocata un’altra Direzione per «discutere tra noi e invece ci rispondono ad libitum, che quando gli altri partiti ci avranno risposto sul governissimo ne parleremo».
Insomma, la rabbia si mescola all’indignazione, fino al bollare come «una provocazione», parole di Davide Zoggia, l’approdo da proporre a Mattarella di un governissimo appoggiato da tutte le forze politiche, perché «l’urgenza è avere comunque un governo in grado di fare la legge elettorale». Ovvero, un governo con mandato pieno. Bersani vede per il paese la necessità di avere un governo «politico» retto da un dirigente del Pd, che oltre alla legge elettorale si carichi sulle spalle una manovra e poi vada al voto. Una posizione convergente di fatto con quella di Franceschini, pure se i due allo stato sono su sponde opposte.
Sì perché allo stato il Pd si spacca in due ufficialmente: da una parte quelli della minoranza di Bersani e Speranza che derubricano il governissimo a pura tattica per perdere tempo e dare così a Renzi la possibilità di rientrare in gioco con le elezioni a marzo; e poi le altre correnti, quella dei «giovani turchi» di Orlando e Orfini, di Areadem di Franceschini, di Sinistra è Cambiamento di Martina e Damiano, che lanciano con Renzi il governissimo ma sanno che questa prospettiva non esiste. In mezzo, diverse aspirazioni inconfessate e un grosso punto interrogativo su cosa succederà al partito che esprime 400 parlamentari su 900 e passa.
Tra una settimana o più, quando il gioco si farà duro e toccherà decidere, «la soluzione della crisi passerà dai numeri del Pd», è la formula usata nel “giglio magico”. Tradotto, se Renzi avrà ancora saldi i numeri in Direzione e nei gruppi, si potrà spingere per accelerare verso le urne, con un Pd sulla linea di Grillo e Salvini, a fine marzo-aprile. Viceversa, se ci sarà la frana, si andrà verso un governo politico senza scadenza immediata, che faccia legge elettorale, leggi economiche e arrivi oltre il G7, per votare in estate-autunno. Questo è lo spartiacque.
Ma il sospetto si ingigantisce col passare delle ore, nel cerchio stretto del premier sono convinti che Franceschini stia servendo lo stesso piatto che servì ad Enrico Letta a suo tempo, lavorando per costruire le condizioni di un suo approdo a palazzo Chigi: cosa che gli uomini del ministro negano con forza sostenendo che non esiste questo sbocco perché senza il sostegno di Matteo non sarebbe praticabile. La partita è appena cominciata.