La Stampa 8.12.16
Così nasce il partito di Matteo
di Marcello Sorgi
Il
7 dicembre verrà ricordato, non solo come il giorno delle dimissioni
formali del premier e della fine del suo governo, ma anche del battesimo
del Partito di Renzi. Un partito nuovo, nato domenica nelle urne del
referendum in cui la riforma costituzionale è stata sconfitta, ma oltre
tredici milioni di elettori hanno votato «Sì». Un partito che forse non
sarà del 40 per cento, il numero magico che ha accompagnato fin qui la
carriera del leader del Pd - dalla sconfitta alle primarie del 2012
contro Bersani, alla vittoria alle Europee del 2014, alla crisi di
governo, provocata dall’exploit del «No» al 60 per cento -, ma secondo
gli studiosi dei flussi elettorali può puntare tranquillamente al
consenso di un italiano su quattro, una percentuale ragguardevole, per
giocare nella nuova (o vecchia?) stagione che sta per aprirsi del
ritorno al proporzionale e alla Repubblica partitocratica.
Renzi
ha detto che i risultati referendari, a suo giudizio, hanno abbattuto la
riforma, il Parlamento che l’aveva votata sei volte e il governo che
conseguentemente va a casa.
Ma non lui, che solo temporaneamente
si fa da parte per prepararsi alle prossime elezioni, portando il
bilancio dei suoi mille giorni, le riforme fatte e non fatte, il
miglioramento delle condizioni del Paese, che magari avrebbe voluto più
consistente ma considera non trascurabile. Va da sé che Renzi, anche se
non lo ha detto esplicitamente, considera irrimediabile la frattura
aperta dalla minoranza del suo partito schierandosi con il «No»; e per
definire i contorni della sua iniziativa guarda al popolo del «Sì» e
alla linea di fondo che ha accompagnato il suo lavoro a Palazzo Chigi,
«più diritti e meno tasse»: sarà questo lo slogan con cui si
ripresenterà presto davanti agli elettori. Guardando, a sinistra, non ai
suoi avversari interni, che sdegnosamente non ha neppure citato, ma al
progetto dell’ex sindaco di Milano Pisapia: mirato, tra molte
difficoltà, a riunire in Italia le possibili frange di uno schieramento
frastagliato, dentro e fuori il Pd, con la sola discriminante di volersi
impegnare in una prospettiva riformista, e non nella serie infinita di
vendette che animano il partito dalla sua fondazione. L’addio a D’Alema,
Bersani, Speranza e agli ex comunisti del «No» non potrà certo essere
stabilito nei termini di uno sfratto: ma è ormai consumato, e Renzi,
sforzandosi di non mostrare rancore, ha fatto capire che non intende
tornare indietro. Del resto, bastava guardare sotto la sede del Nazareno
la folla degli iscritti divisa in due schiere che stavano per venire
alle mani, per capire che la separazione tra le due anime del Pd, che
dev’essere ancora formalizzata al vertice, nella base è già avvenuta.
Resta
ancora da capire quali saranno le conseguenze della svolta di ieri
sulla crisi. Renzi non parteciperà neppure alle consultazioni, al
Presidente della Repubblica ha spiegato che è disposto ad appoggiare un
nuovo governo, per il tempo breve necessario all’approvazione della
nuova legge elettorale, solo se anche gli altri partiti di opposizione
saranno disposti a condividerne la responsabilità. In altre parole, pur
rispettoso delle prerogative del Capo dello Stato, si dichiara
indisponibile a pagare il conto presentato dagli elettori a Bersani nel
2013, dopo che il centrodestra era passato all’opposizione e il peso
delle scelte del governo Monti era ricaduto per intero sulle spalle del
centrosinistra.
Il Quirinale avvia oggi le consultazioni: ma a
parte Berlusconi, che non s’è pronunciato chiaramente, Salvini, Meloni e
Grillo hanno già detto che vogliono il voto. Se non ci saranno novità,
dunque, a Mattarella non resterà che decidere se mandare in Parlamento
un governo del Presidente, tecnico o istituzionale, a cercarsi la
maggioranza, oppure, a sorpresa, in assenza di alternative, chiedere a
Renzi di fare il bis.