La Stampa 7.12.16
Tra le macerie di Aleppo devastata dall’ultimo assalto
Maxi offensiva di Assad nei quartieri orientali Ripresa oltre metà dell’area in mano ai ribelli
di Giordano Stabile
Aleppo
Est è una terra desolata di edifici ridotti a scheletri, macerie,
autobus sventrati. Si arriva dalla Strada del Castello, fra due trincee
fatte di terra, calcinacci. Servono a proteggere le auto dai cecchini.
Ai posti di blocco oltre ai soldati ci sono guerriglieri curdi dello
Ypg, e palestinesi della Brigata al-Quds. Alleati dell’esercito di
Bashar al-Assad. Combattenti locali, gente dei quartieri di Sheikh
al-Maqsoud e Handarat. Di lì è partita l’offensiva che in pochi giorni
ha permesso ai governativi di riconquistare più di metà del territorio
controllato dai ribelli per oltre quattro anni.
La svolta finale nell’interminabile battaglia di Aleppo.
È
un pezzo di Siria che ha vissuto separato dal resto del Paese, e dal
mondo. Gran parte della popolazione si era spostata a Ovest all’arrivo
degli insorti. Il resto è fuggito durante la battaglia. Ora ritornano.
Frastornati, spaesati. Nel quartiere di Hanano, Amal Fardosi, una
signora sulla sessantina con un fazzoletto verde-azzurro in testa e
indosso la ghaballia nera, cerca la casa della figlia, ma non si orienta
più fra i palazzi senza vetri alle finestre, le ringhiere dei
terrazzini divelte, la mobilia sfasciata in mezzo alla strada. Fatima,
la nipote tredicenne, mostra un edificio di cinque piani, accartocciato.
«Eravamo a casa di amici, quando siamo tornati, era così», racconta. Un
bombardamento.
Fabbrica di bombe
La vita ad Aleppo Est era
scandita da raid, combattimenti e i tanti divieti imposti dalle fazioni
ribelli, Jaysh al-Khour e Liwa al-Tawhid, la più estremista e islamista.
«Non si trovava più niente da mangiare e non potevamo uscire di casa -
continua Fatima -. Ci dicevano: se scappate di là, l’esercito vi
ammazzerà tutti». Un eterno coprifuoco. Non si andava neanche a scuola.
L’istituto statale al centro del quartiere era diventato la base
operativa della Liwa al-Tawhid. L’hanno appena sminato. Il generale
Samir Suleiman conduce la visita guidata. Mostra una decina di bombole
del gas, azzurre, allineate nel campetto da basket. «Qui c’era la
fabbrica di armi chimiche - spiega -. Queste bombole venivano
trasformate in ordigni carichi di veleno e lanciate con mortai di grosso
calibro, i cosiddetti cannoni dell’inferno».
Dall’altro lato, al
primo piano del secondo edificio, c’era il laboratorio. Un maggiore
mostra i bagni pieni di taniche e sacchetti di componenti chimiche,
alcuni con il marchio Made in Germany. «Utilizzavano il gas Exb
mescolato a carbonex e theram per produrre un potente veleno - precisa
-. In un solo giorno, un mese fa, hanno tirato 42 bombole sull’area di
Dahlet al-Assad, ucciso e ferito decine di persone». Gli ufficiali
ritengono questa scoperta importantissima. Hanno aperto la scuola il più
in fretta possibile ai reporter e sperano che diventi un caso per
accusare di crimini di guerra i ribelli. «Siamo aperti a ispezioni
internazionali», conferma il generale.
Ospedali da campo
Per
il regime la riconquista così veloce dei due terzi di Aleppo Est è
un’occasione unica anche sul fronte della propaganda. Il generale
Suleiman ci conduce a tutta velocità attraverso gli altri quartieri
liberati. Hadariya, Halwamaniya, Jabal Badro. Poi zona detta di Tariq
al-Bab, fino ai margini di Sakhour. «Questo era il regno di Jabat
al-Nusra, il posto più strategico di Aleppo Est, sulla strada che porta
dalla Città Vecchia all’aeroporto - racconta con lo sguardo che si
inorgoglisce -. Non si rassegnano ad averlo perso. Stanno
contrattaccando da giorni». Qui le strade sono più strette, le macerie
inondano la carreggiata, alle finestre ci sono sacchetti di sabbia. Una
fortezza da guerriglia urbana.
La battaglia si è spostata un
chilometro più in là ed è in corso. Nascosti fra le case ci sono i tank
T-55, dal profilo molto basso e, invisibili, cannoni di grosso calibro.
Si sentono i colpi e il sibilo dei proiettili che partono. Dall’altro
lato è un concerto di mitraglie da 23 millimetri. Nel cortile della
scuola del quartiere ci sono le voragini fresche dei colpi di mortaio.
Bisogna fare in fretta ma i militari vogliono mostrare «l’ospedale da
campo» di Al-Nusra, la filiale siriana di Al-Qaeda. Ci sono cinque
autoambulanze nel cortile, e altre due in uno spiazzo fra due edifici.
Tutte sventrate dai raid. Venivano usate come sale operatorie, pronto
soccorso. Perché bombardarle? «Qui non c’erano più civili – ribatte il
generale -. Solo Al-Nusra. Servivano a curare i loro feriti». Tutti i
comandanti catturati o uccisi «erano stranieri, sauditi, qatarini,
maghrebini», insiste: «Questa non è una guerra fra siriani ma una guerra
per difendere il nostro Paese, la nostra sovranità».
In ogni
caso, una guerra senza pietà. Lunedì i ribelli hanno risposto con lo
stesso metro. Colpi di mortaio su un ospedale da campo russo, nel centro
di comando di Nadi Aldubbat, dentro Aleppo Ovest. Un pediatra è rimasto
ucciso, due infermiere uccise, e la rabbia russa si è scatenata con un
bombardamento massiccio proprio fra la Città Vecchia e Tariq al-Bab,
durato tutta la notte e poi la giornata di ieri. Il generale però
insiste che l’Intelligence permette di concentrare i raid nelle zone
dove non ci sono civili e sono asserragliati i jihadisti. «La battaglia
di Aleppo non è diversa da Mosul, facciamo tutto il possibile». Spiega
che le forze speciali si infiltrano nei quartieri, cercano di attirare i
combattenti da un lato, per poter aprire vie di fuga ai civili su
quello opposto. Solo dopo comincia l’assalto frontale, con armi pesanti e
raid massicci. Così è stato preso Hanano, il punto debole dello
schieramento ribelle, la carta che ha fatto crollare tutto il castello.
Così
sono scappati gli abitanti della zona di Tariq al-Bab. Lo raccontano al
campo profughi di Jibrin, dove gli hangar del vicino aeroporto sono
stati trasformati in rifugi. Come Jamal Ahmed al-Mulki, 33 anni, seduto
su un materassino e qualche coperta assieme alla moglie Warda, 26. «I
soldati sono arrivati e ci hanno detto di dirigersi verso Jabal Badro –
raccontano -. Ma era un inferno. Sparavano da tutte le parti. I cecchini
dei ribelli tiravano su quelli che scappavano. C’erano tanti morti per
le strade, anche bambini». Al campo continuano ad arrivare famiglie su
famiglie. Aisha, in fila per un panino e un po’ di latte, ha solo sedici
anni e in braccio il piccolo Mustafa, 4 mesi. Il marito diciassettenne
era uscito a cercare cibo il giorno della battaglia. Da più di una
settimana non si fa vivo. «Si chiama Ibrahim al-Manasi, aiutatemi a
ritrovarlo», chiede con gli occhi tristi e spauriti.