La Stampa 6.12.16
Cresce il pressing dei renziani
“Partito blindato e voto subito”
I fedelissimi frenano sul congresso: finirebbe a cazzotti. Bersani: “A lui dico: stai sereno”
di Carlo Bertini
I
veleni scorrono a fiumi nel Pd, sui social, sui cellulari, nei
capannelli: «Se Renzi lascia al governo Franceschini, Delrio o Orlando,
un minuto dopo si trova da solo nel partito, da noi funziona così»,
sibilano acidi gli uomini di Bersani. In tivù D’Alema non è da meno: «I
rottamati da Renzi a cui non è stata concessa neanche una dignitosa
sepoltura hanno dimostrato di saper dare filo da torcere», ghigna l’ex
premier. La partita interna si fa dura assai. Per questo il primo
pressing, quello più discreto e più energico, lo ha esercitato l’altra
notte, non in solitaria, Dario Franceschini: fermando Renzi - così
raccontano - dall’istinto di dimettersi anche da segretario del Pd. Un
istinto che il leader ha tenuto a freno ma che preoccupa i peones di
ogni ordine e grado, terrorizzati di restare nella barca che fa acqua
senza timoniere.
Il secondo pressing lo hanno esercitato quelli
del «giglio magico», fiorentini come Davide Ermini e Andrea Marcucci,
spalleggiati pure dai franceschiniani, per spingere Renzi verso una
rivincita, una ricandidatura alle politiche, per non buttare alle
ortiche il patrimonio di voti conquistato. Tanto che il tweet lanciato
ieri pomeriggio da Luca Lotti, braccio destro del premier, fa tornare il
sorriso ai depressi: quel «ripartiamo dal 40%» citando il 40% dei voti
alle primarie perse con Bersani nel 2012, e il 40% delle europee del
2014, fa capire bene l’antifona. Il leader non molla, anzi è pronto a
giocare il secondo tempo, quelle delle politiche, convinto di potercela
fare.
Ma il maremoto nel Pd può essere un ostacolo. Tanto che i
pasdaran, come Alessia Morani, vorrebbero andare al voto subito in
primavera, a marzo se possibile, senza farsi scavalcare da Salvini e
Grillo che vogliono le urne senza passare dal via di una nuova legge
elettorale. Un ragionamento che tradotto porta dritto ad un’altra
forzatura, quella di votare senza fare prima il congresso Pd, quindi
senza mettere in gioco la leadership di Renzi. Con la scusa che ora il
clima è tale che «se andassimo al congresso finirebbe a cazzotti», dice
al telefono un dirigente ad un altro big della stessa regione rossa. A
dare l’idea di quanto poco siano tollerati i compagni del No dai gruppi
al comando in circoli e sezioni: il rischio di congressi provinciali
scossi da risse non solo verbali e scambi di insulti è quantomai
concreto.
Ma a parte il congresso, che molti invece considerano
obbligato prima del voto, i renziani concordano sul bisogno di blindare
il partito: ovvero di non darlo via ad un «reggente» che traghetti il Pd
nel rapporto col governo e fino alle assise, «perché in quel caso non
daresti più le carte e sarebbe rischioso».
La Direzione di domani
si terrà in questo clima. Se Bersani ora dice «prima il Paese e poi il
partito», senza premere per un congresso anticipato, «non facciamo il
suo gioco, mettiamo in sicurezza il governo e facciamo un confronto
serio nel Pd, non un votificio», può esser preso in parola da chi
nell’entourage del premier questo congresso lo farebbe dopo le elezioni
politiche: magari per non dare alla minoranza l’occasione per potersi
contare e avere poi diritto a quote precise nelle liste elettorali. Quel
che emerge, al di là della voglia di rappresaglia dei renziani, è che
neanche la sinistra scalpiti per un congresso a gennaio: chiedete a
Renzi un passo indietro dalla segreteria? «No, chiediamo che il Pd cambi
rotta sulle questioni sociali», risponde Roberto Speranza dopo un
colloquio con Bersani. Piedi di piombo, è la linea dell’ex leader,
andare di corsa ai gazebo non serve, c’è tempo, non si voterà in
primavera. Poi però punge: «Un messaggio per Matteo? Stai sereno».
D’Alema suona lo stesso spartito: «Se Renzi si dimettesse dovremmo fare
il congresso ora in un clima avvelenato. Dovremmo invece cercare un
terreno di ricomposizione delle nostre forze».