La Stampa 6.12.16
Monti
“Non hanno vinto i populisti, è stata una risposta civile”
“Renzi ha sbagliato a voler scambiare i bonus con il consenso”
intervista di Marco Zatterin
«Questa
non è una vittoria del populismo, né delle posizioni antieuropee». Alla
fine, nel giorno dopo il No che ha archiviato la riforma costituzionale
e il governo Renzi, Mario Monti tiene a dire proprio questo, vuole
spiegare che la consultazione di domenica non è quello che si legge sui
giornali internazionali. Il professore ex premier ed ex commissario Ue
ha speso buona parte della giornata al telefono, lo hanno chiamato
colleghi nuovi e vecchi. «Sicuramente è un risultato inatteso nella
dimensione – concede -. Però è vero che molti personaggi della politica e
della finanza internazionale fanno fatica a capire il suo effettivo
significato». Gli elettori, assicura, «hanno solo bocciato un progetto
mal concepito».
Se non è populismo, cos’è?
«È la risposta
civile di un Paese che ha voluto stare al gioco democratico e che, alla
domanda sulla riforma della Costituzione, ha dato la risposta che
riteneva fosse adeguata per il quesito, con molti Sì e moltissimi No.
Gli elettori hanno respinto la personalizzazione dello scontro. Molti -
come me - hanno espresso un voto negativo in quanto convinti che questa
riforma costituzionale non avrebbe migliorato la governance dell’Italia
ma l’avrebbe peggiorata».
Politica o no, Renzi ha deciso di lasciare.
«Ho
affermato in più occasioni che non c’era ragione per cui dovesse
dimettersi in caso di vittoria del No. Il risultato è stato tuttavia
talmente netto che capisco rispetto la sua decisione».
C’è un
diffuso allarme populismo in Europa. Molti politici, e commentatori,
temono che l’Italia possa perdere la rotta della stabilità.
«Il
populismo è certo una minaccia anche per noi, ma non è corretto dire che
domenica i populisti abbiano vinto in Italia e perso, questo sì è vero,
in Austria e vinto in Italia. Nel No italiano c’erano milioni di
populisti, ma anche milioni di non populisti e filo-europei. L’Italia di
domenica, non cesso di spiegarlo ai miei interlocutori internazionali,
non è il seguito di Brexit e Trump. Anche gli sconquassi finanziari che
il mondo temeva non si sono avuti, almeno per ora».
Questi errori di previsione sono dunque colpa della politica e di chi ci osserva?
«C’è
una iperreattività degli analisti stranieri. Quando Renzi - che ho
molto apprezzato nella sua fase iniziale soprattutto per la riforma del
mercato del lavoro - si è dato l’obiettivo prioritario di modificare la
costituzione, ha cambiato anche l’impostazione della strategia di
governo. È diventato decisamente più populista pure lui. L’uso sempre
più frequente del disprezzo verso l’Unione europea ha portato il
presidente del Consiglio a giocare con il fuoco nei confronti
dell’opinione pubblica. Non sorprende allora che l’Italia sia
rapidamente diventato il Paese in Europa con la più alta percentuale di
cittadini che si dicono favorevoli ad un’uscita dalla Ue. I cittadini
ascoltano i governanti, soprattutto quelli che come Renzi hanno grandi
capacità di comunicazione. Ascoltano e il loro atteggiamento nei
confronti della Ue non può non esserne influenzato».
Oltre a criticare aspramente la Ue, Renzi ha in effetti promesso molto in campagna elettorale.
«Non
solo promesso, ma dato. Una volta entrato nell’ottica del referendum,
il presidente del Consiglio ha largheggiato in trasferimenti e bonus per
acquisire consenso. Il fatto che per la prima volta gli italiani
abbiano risposto con un voto prevalentemente negativo alla
sollecitazione al consenso venuta dalla spesa pubblica è qualcosa che
deve farci pensare, in chiave positiva».
Perchè in chiave positiva?
«Pensi
se con i bonus si fosse vinto il referendum, quali effetti ciò avrebbe
avuto sulle scelte future della politica. Avrebbe eretto a sistema
questo tipo di politica! Invece, se qualcosa è cambiato nella mente di
noi italiani a questo riguardo, saremmo di fronte alla “riforma
strutturale” più importante di tutte: la gente non ha votato sulla base
delle erogazioni ricevuto o promesse».
Il No è l’espressione del
partito della rivolta. Di chi ha perso la fiducia e non trova un posto,
della paura davanti alla forbice fra ricchi e poveri che si allarga.
«Non
credo che tutti i No fossero espressione di rivolta. Comunque il
problema c’è ed è gigantesco. Non solo italiano. In Italia è reso più
drammatico dal non riuscire a trovare un cammino di crescita. Il governo
Renzi ha fatto alcune cose per la crescita, poi ha rivolto altrove i
suoi sforzi, per esempio facendo poco per ridurre le rendite attraverso
una maggiore concorrenza. Sono convinto che accanto alla crescita
occorra un obiettivo di più equa distribuzione del reddito e della
ricchezza. Per questo non credo che sia stato sensato togliere l’Imu,
l’unico elemento di imposta patrimoniale che c’era in Italia. Non lo è
stato neppure dare vari bonus invece che ridurre il cuneo fiscale».
Il dramma sono i giovani che non sentono di avere un futuro.
«Non
so se abbiano votato No al referendum per questo. Vedo che sono
alienati dal processo politico. Hanno grande attivismo, ed è bello, nel
volontariato e nel sociale. Ma osservo un distacco crescente dalla
politica che può essere pericoloso. Nasce qui la crisi della politica
nella nostra società, nasce nell’inseguimento del consenso. La
leadership a parole diventa sempre di più una followership dei sondaggi.
Non credo che possa dare speranza ai giovani chi non guarda con
realismo la realtà. Renzi è stato un ottimo coach per il Paese,
all’inizio. Poi qualcosa è cambiato, forse perché è prevalsa la ricerca
del consenso».
Adesso che succede?
«Non credo che dovranno
esserci elezioni anticipate. Né governi tecnici. Serve un governo
politico, con un presidente del Consiglio che non dovrebbe essere così
difficile trovare, nel governo uscente o nella maggioranza».