domenica 4 dicembre 2016

La Stampa 4.12.16
Beppe Grillo e la mistica della sconfitta
di Massimiliano Panarari

Uno sconfittismo che risuona degli echi degli estremismi. È vero che la scaramanzia fa parte della mentalità degli uomini di spettacolo; e, dunque, il Beppe Grillo che, nel comizio finale di Torino, proclama davanti ai suoi militanti che «dobbiamo abituarci a essere perdenti contro il mondo», e che «se perdiamo sarà comunque una perdita straordinaria», è fors’anche il capopopolo che non dimentica di essere stato capocomico. Come pure, verosimilmente, nel suo discorso fa capolino una certa percentuale di tatticismo e politica politicante: così, di fronte alla potenziale assunzione di responsabilità istituzionali derivanti dall’affermazione del No (di cui il M5S è palesemente l’azionista di maggioranza), emergerebbe un po’ di «strizza di vincere».
Ma, giustappunto, c’è anche, e soprattutto, altro. Dietro la metafora della «cassa di Maalox» che il leader pentastellato ha dichiarato di voler comprare lunedì in caso di sconfitta, possiamo trovare la riproposizione di un fascio di tendenze di lunga durata di talune ideologie del Novecento. Avvolti nel packaging comunicativo della politica-spettacolo, di cui l’ex showman Grillo è un maestro, si intravedono svariati motivi delle narrative dell’estremismo di destra (e alcuni di quelle dell’ultrasinistra), a partire precisamente da questa evocazione epica della sconfitta. La mistica della battaglia perduta affonda le proprie radici in una vasta tradizione politica antidemocratica, ed è una tipica issue simbolica di confine tra il radicalismo di destra e un certo radicalismo di sinistra, che da qualche tempo si vedono miscelati nel fenomeno del «rossobrunismo». Si pensi alla ricerca della «bella morte» dei repubblichini di Salò, all’esaltazione del suicidio rituale di una certa cultura di destra giapponese (che aveva tra i suoi portabandiera lo scrittore Yukio Mishima), ma anche alla mitologia nazionalista di Slobodan Milosevic costruita sulla «gloriosa» disfatta subita a opera delle armate del sultano nella battaglia della piana dei Merli nel 1389 (da cui il Kosovo, teatro di quel rovescio, quale luogo dell’identità e dell’orgoglio serbi).
Il Movimento 5 Stelle ha costruito le sue fortune elettorali come formazione postmoderna e postideologica, ma vede agire al proprio interno alcuni filoni politici molto riconoscibili. E uno di questi - senza che ve ne sia la consapevolezza da parte di alcuni settori del suo elettorato - coincide con l’irrazionalismo delle destre radicali novecentesche. Che erano accesamente antipartitiche, e avevano tra i loro principi cardine vari temi che si ripresentano nel grillismo: lo sconfittismo eroico; l’idea della lotta solitaria e intrepida (intrisa di superomismo) contro nemici potentissimi e soverchianti (tra cui i famigerati, e non ben precisati, «poteri forti» e la finanza); il sovranismo; e l’avversione per la tecnica (riconfermata dall’uscita del Comune di Torino dall’Osservatorio Tav), anche se si tiene con un efficacissimo utilizzo - new age e «apocalittico» - del web (una contraddizione tipica, nel Secolo breve, proprio della «modernizzazione reazionaria» dell’estrema destra).
La democrazia liberal-rappresentativa, invece, ha una base illuministica, empirica e incrementale (lo «sperimentalismo democratico», come lo definiscono alcuni studiosi). Si costruisce faticosamente, giorno dopo giorno, attraverso realizzazioni e risultati concreti, perseguendo dei successi che possano essere attrattivi e facilitino l’inclusione di tutti. E non divide tra i «buoni» e i «cattivi», rivelandosi quindi - e giustamente - assai allergica alla mitizzazione della contrapposizione e alla retorica strumentale del vittimismo.