Corriere 4.12.16
Il governo, le incognite
Sono tante le incognite del voto referendario: rilancio, dimissioni, elezioni e Italicum. Oltre alla Carta è al bivio il governo
di Massimo Franco
È
chiaro che oggi si voterà sulla riforma della Costituzione, come è
giusto, ma anche sull’operato del governo di Matteo Renzi. Il premier ha
impresso questa direzione alla campagna referendaria, e gli avversari
l’hanno fatta propria convinti di esserne avvantaggiati. Non è una
prospettiva incoraggiante. Utilizzare la Carta fondamentale per
legittimare pienamente un esecutivo non eletto, o per abbatterlo,
dimostra una sensibilità istituzionale dai contorni controversi.
Comunque, se prevale il Sì la Costituzione subirà un mutamento di fondo,
del quale si capiranno solo alla distanza le implicazioni. Altrimenti
rimarrà com’è. Ma ormai conta il «dopo»: uno scenario che, almeno di qui
a fine anno, non prevede le dimissioni di Matteo Renzi.
Dimissioni e legge di Stabilità
Anche
se il premier le offrirà al capo dello Stato, Sergio Mattarella,
difficilmente saranno accettate prima che sia approvata la legge di
Stabilità: un passaggio obbligato. E comunque, sarà il risultato del
referendum a determinarne il significato. Se il Sì dovesse vincere,
anche solo per una manciata di voti, l’offerta di un passo indietro
sarebbe solo il piedistallo per un rilancio dell’esecutivo. Con Renzi
saldamente a Palazzo Chigi, nuovi ministri e un programma da spendere
alle prossime elezioni politiche: forse prima di quanto non si pensi.
L’unico timore del governo sono i ricorsi e le proteste che
scatterebbero se il voto degli italiani all’estero risultasse decisivo.
Ombre sui voti all’estero
L’ombra
dei brogli diventerebbe incombente e sarebbe usata e ingigantita dalle
opposizioni. La nuova Costituzione ne uscirebbe approvata, ma
politicamente contestata e delegittimata. Per paradosso, un epilogo del
genere evocherebbe una vittoria destabilizzante; e darebbe corpo a una
prospettiva di elezioni anticipate, col rischio di un Italicum
modificato al minimo e di uno scontro tra il populismo di Beppe Grillo e
un governo Renzi tentato di inseguirlo sullo stesso terreno. Per
questo, dietro l’aggressività del Movimento 5 Stelle si indovina il
calcolo di una «vittoria comunque»: o perché si indebolisce Renzi con il
No, o perché lo si sfida dopo l’affermazione del Sì con qualche
possibilità di batterlo, diventando così il polo di attrazione delle
opposizioni.
Il «fattore Grillo»
Il governo conta sul
«fattore Grillo» come spaventapasseri dell’elettorato. La scommessa è di
additare la possibilità di una presa del potere dei Cinque Stelle per
spostare gli indecisi dal No al Sì; e per convincere quanti sono
intenzionati a «votare con il portafoglio». L’operazione, almeno in
parte, sembra riuscita. Il contratto in extremis ai pubblici dipendenti,
la bocciatura da parte della Corte costituzionale della riforma
dell’Amministrazione firmata dal ministro Marianna Madia: sono tutti
tasselli che il governo rivendica come episodi da giocare per la
rimonta, insieme col voto all’estero. Bisogna vedere solo se
funzioneranno fino a invertire i pronostici.
L’incognita dell’Italicum
Il
fatto che in due anni e mezzo di renzismo il M5S sia diventato più
forte, e non più debole, passerebbe in secondo piano; e così i magri
risultati delle riforme economiche e i livelli di occupazione di fatto
invariati. Lo scenario di un’affermazione del No, per paradosso,
potrebbe rivelarsi più stabilizzante. Lo status quo costituzionale
imporrebbe una revisione radicale del sistema elettorale dell’Italicum,
vero convitato di pietra, in senso proporzionale. In quel caso, la
prospettiva di un M5S pigliatutto si allontanerebbe: Grillo conterebbe
per i suoi voti, senza premi alla minoranza più forte tali da regalarle
una maggioranza assoluta.
Tra reincarico e alternative
Ma
soprattutto permetterebbe di tentare una riconciliazione nazionale dopo
gli strappi di questi mesi. Si tratta di un’esigenza più sentita di
quanto sembri, anche ai vertici delle istituzioni. L’incognita è se
Renzi accetterebbe di guidare quello che suonerebbe come un
ridimensionamento sia personale, sia della sua strategia di rottura;
oppure se insisterebbe, per dimostrare che è impossibile formare una
qualunque maggioranza senza il suo «placet». Già si parla di governi
guidati da Romano Prodi, dopo il suo Sì sorprendente e critico
dell’ultim’ora; o da ministri come Piercarlo Padoan, Graziano Delrio,
Dario Franceschini.
Le urne sullo sfondo
Sono ipotesi che
rispecchiano in modo crescente le proporzioni di un’eventuale sconfitta
del Sì, fino a prefigurare un dopo-Renzi. A oggi è una prospettiva
remota, sebbene Palazzo Chigi la analizzi con fastidio. E per i giorni
successivi ci sono troppe variabili: dal numero degli elettori alle
percentuali reali, non quelle di sondaggi troppo oscillanti, di
un’affermazione del Sì o del No. Ma si può scommettere fin d’ora che,
prima di togliere il disturbo, Renzi lavorerà per intestarsi ogni
singolo voto; e per farlo pesare in caso di voto anticipato o di
reincarico. Il suo orizzonte rimangono le urne. Deve solo capire se e
quando riterrà di poterle ottenere, per centrare meglio i suoi
obiettivi.