La Stampa 4.12.16
Donne e buste paga leggere
“Senza asili, a noi mamme conviene rimanere a casa”
Studiano di più e guadagnano meno. Non solo: il 46% non ha lavoro Chiara Saraceno: “La mentalità maschilista è ancora dominante”
di Giacomo Galeazzi
Un’italiana
su due non lavora. In Europa solo Malta sta peggio dell’Italia nella
classifica dell’occupazione femminile: una perdita di prodotto interno
lordo del 15% valutata dal Fondo monetario internazionale. Il 30% delle
donne dopo la nascita del figlio lascia il lavoro. E nel Mezzogiorno il
dato negativo è doppio rispetto al Nord.
Tra i 38 Paesi analizzati
nell’ultimo rapporto Ocse, l’Italia è uno dei pochissimi Stati in cui
la quota di occupazione delle madri diminuisce invece di aumentare
quando il figlio supera i tre anni.
Secondo gli ultimi dati
Eurostat, il tasso di inattività delle donne è di 20 punti superiore a
quello degli uomini (45,9% contro 25,9%). Un «gender gap» che solo a
Malta è maggiore (27 punti di differenza). E costa caro il divario di
genere fra uomini e donne in opportunità e status. Alcune aziende
italiane sono corse ai ripari dotandosi di strutture interne per la
parità di genere. Dal punto di vista dell’occupazione femminile, dunque,
l’Italia è in fondo alla classifica europea. Eppure le donne si
laureano di più, prima e con voti migliori. In Italia il 60,3% dei
laureati è donna. In media il loro voto di laurea è di due punti
superiore a quello degli uomini, eppure guadagnano mediamente 200 euro
al mese in meno. Al dipartimento delle Pari opportunità forniscono dati e
cronistorie delle aziende che si sono dotate di nidi e strutture di
assistenza alle madri che lavorano, ma ricordano come dello stanziamento
governativo di 500 milioni per favorire l’occupazione femminile ne sia
poi effettivamente arrivata a destinazione una minima parte. Il resto
dei fondi è stato deviato dalle Regioni su altri voci di bilancio. «La
mentalità, i modelli culturali di genere e di famiglia incidono molto
sul basso tasso di occupazione femminile - spiega la sociologa Chiara
Saraceno -. Tra le nazioni sviluppate l’Italia è un paese in cui la
divisione in base al genere del lavoro famigliare non pagato è tra le
più asimmetriche». Anche quando la donna è occupata, svolge la gran
parte dei lavori domestici. E rispetto agli altri paesi sviluppati, in
Italia si pulisce casa più spesso, si preparano più pasti, si stira di
più. Gli standard di una casa «tenuta bene» e alimentari sono più
elevati, come dimostra il dibattito sulle virtù del cibo portato da casa
rispetto a quello delle mense scolastiche. «Abbiamo livelli di
prestazione più esigenti che negli altri Paesi- aggiunge -. Ciò richiede
più disponibilità di tempo».
Contratti svantaggiosi
In
Italia la percentuale delle donne che non hanno un impiego tra i 25 e i
54 anni (cioè il periodo in cui si dovrebbe essere più attive sul
mercato, come occupate o in cerca di impiego) è del 34,1%, a poca
distanza da Malta con il 34,2%, a fronte dell’11,4% in Slovenia e
dell’11,6% in Svezia. «Accanto alle aspettative rispetto alla famiglia,
persiste una cultura aziendale largamente maschilista, che ritiene le
donne inaffidabili, o meno competenti degli uomini e che considera la
necessità di conciliare lavoro e responsabilità famigliari
un’interferenza fastidiosa o non accettabile», analizza Saraceno. I dati
di Almalaurea mostrano che la discriminazione, a parità di titolo di
studio, inizia già prima che i giovani laureati maschi e femmine creino
una famiglia, incidendo sia sui tassi di occupazione, sia sui tipi di
contratto, sia sui livelli di remunerazione. Queste differenze diventano
ancora maggiori a cinque anni dalla laurea.
Quando si rinuncia a
cercare lavoro è perché paradossalmente un’occupazione può trasformarsi
in una perdita economica. E’ il caso di Ilenia Cardinale Franco, 34
anni. «In vita mia ho sempre lavorato, ma ora con rette dell’asilo da
450 euro al mese mi conviene restare a casa». Prima in Emilia Romagna e
ora nelle Marche, ha fatto l’operaia a contratto in diverse aziende
metalmeccaniche. «Conti alla mano, non ha più senso», scuote la testa.
Colpa in primo luogo del caro-asilo comunale. «Io e mio marito Luca
abbiamo dovuto prendere una decisione drastica perché ci siamo scontrati
con un paradosso - racconta - Abbiamo tentato qualunque strada per
iscrivere all’asilo nostra figlia Letizia e abbiamo sofferto per un
meccanismo assurdo. I posti disponibili sono pochissimi, se lavoro
anch’io saliamo di fascia di reddito e siamo tagliati fuori dagli
istituti pubblici. Quelli privati sono così costosi che diventa più
conveniente occuparmi a tempo pieno della bimba finché non andrà alle
elementari». E aggiunge:«In Francia e in Germania ogni bimbo che nasce
ha un posto garantito all’asilo. In Italia è terno al lotto, un
calvario, Le graduatorie vengono compilate in base a criteri
burocratici: bastano due stipendi normalissimi a farti classificare in
una fascia elevata». Il dato regionale è netto. Al Sud le donne in età
da lavoro ma inattive sono il 60,7%, quasi il doppio rispetto al Nord
(37,3%) . L’occupazione femminile è da record nel Mezzogiorno, dove è
comparativamente bassa anche quella maschile. La crisi cioè ha colpito
soprattutto il lavoro al Sud, allargando ulteriormente i divari
territoriali.
Maternità come ostacolo
Veronica De Romanis
insegna politiche economiche europee all’università di Stanford e alla
Luiss. Per incrementare l’occupazione femminile propone la «distorsione
temporanea» replicando un metodo efficace: quello delle quote di genere.
«Coi “mini-jobs” si lavora 15-20 ore settimanali per un salario base di
450 euro - spiega -. In Germania su 7 milioni di “mini-jobbers”, due
terzi sono donne, impegnate nell’assistenza domestica, nella
ristorazione, nel turismo, nelle piccole e medie imprese che necessitano
di mano d’opera per un tempo limitato». Un’alternativa al lavoro in
nero, alla disoccupazione o all’inattività. Poi, si valuta una
tassazione differenziata.
«A fronte di un incremento della
retribuzione, derivante da una tassazione minore, le donne tendono a
lavorare più degli uomini - evidenzia De Romanis -. Ciò darebbe luogo ad
una migliore distribuzione tra l’uomo e la donna delle mansioni da
svolgere in ambito familiare. Oggi, l’80% del lavoro familiare è a
carico delle donne». Si valutano anche tasse universitarie differenziate
per incentivare alcuni percorsi universitari alle donne. «In Italia
solo un terzo dei laureati in ingegneria, nelle discipline del settore
manifatturiero e della costruzione è di sesso femminile - osserva -.
Eppure, queste facoltà garantiscono sbocchi professionali (la
disoccupazione è inferiore al 2%) e guadagni maggiori del 33%». In
gravissimo ritardo in Italia è anche la comunicazione sulla maternità.
«In base ai dati Ocse, l’Italia registra il tasso di occupazione minore
tra le donne con almeno due figli», afferma De Romanis. Quindi andrebbe
presentata la maternità non più come un ostacolo al lavoro bensì come un
vantaggio da sfruttare perché l’esperienza della nascita e della cura
dei figli consente di acquisire una serie di capacità, come la
flessibilità, la creatività ma anche l’essere multitasking e buon
motivatore, determinanti nella vita lavorativa. Che le distorsioni
aiutino lo dimostrano anche recenti esperimenti negli Usa. Per
incrementare la scelta di direttori d’orchestra donna, l’unico modo è
stato quello di organizzare selezioni al buio, ossia con la tenda del
palcoscenico chiusa. Intanto il «gender gap» è in crescita: su 144 paesi
analizzati, l’Italia è al 50°posto in classifica, in calo di 9
posizioni rispetto al 41° posto del 2015. Nelle opportunità economiche e
nella partecipazione, il divario è passato dal 60% del 2015 al 57% del
2016. Sulla differenza di salario l’Italia è scesa dal 109° posto al
127°. Rispetto allo scorso anno, calano anche i ruoli manageriali e
tecnici ricoperti dalle donne (dall’85° all’87° posto). Un grave danno
per il sistema paese.
Servizi e occupazione
Alla Tenaris di
Dalmine (Bergamo), azienda siderurgica attiva nel settore petrolifero,
dal 2008 è in funzione l’ufficio della diversità di genere. Per una
maggiore inclusione sono stati attivati numerosi progetti tra cui «mom
coaching» che aiuta le future mamme organizzarsi e reinserirsi meglio al
rientro della maternità. E poi: orari flessibili in ingresso e in
uscita, un giorno a settimana di lavoro da casa finché il figlio non
abbia compiuto due anni, posti garantiti in asili nido convenzionati,
visite mediche specialistiche e pap test in fabbrica, «lactancy room»
per estrazione e conservazione del latte materno, parcheggi rosa e
abbigliamento di lavoro specifico per le lavoratrici. Irene Zaccardini,
37 anni e un figlio di 2, è in azienda dal 2006 dove si occupa di
automazioni e installazione di macchinari nelle linee produttive.
«Ho
usufruito dell’intero programma: da quando sono rimasta incinta fino ad
adesso che Pietro va all’asilo- dice Irene-.Non avrei potuto conciliare
vita privata e lavoro se non avessi avuto queste opportunità. Ho avuto
persino una promozione mentre ero in gravidanza e in quei mesi le
mansioni che non potevo svolgere a contatto con vernici e solventi sono
state provvisoriamente ridistribuite tra i miei colleghi. Al ritorno
dopo la gravidanza sono stata aiutata a riprendere il posto con l’aiuto
per i nuovi compiti di mamma». In molte zone, specie al Sud, la scuola
dell’infanzia non funziona a tempo pieno e la qualità è inferiore agli
standard europei, scoraggiando quindi la frequenza o rendendo
difficoltoso conciliarla con una occupazione. «Le scuole elementari a
tempo pieno continuano ad essere un servizio a domanda individuale, non
uno standard generale, e sono molto più diffuse nel Centro-Nord che nel
Mezzogiorno - sostiene Saraceno - Ancora più insufficienti sono i
servizi di cura per le persone non autosufficienti, lasciandone la
responsabilità pressoché per intero alle famiglie e alle loro risorse».
Senza aiuti alla maternità, non aumenta l’occupazione rosa.