La Stampa 4.12.16
Fratelli d’Italia divisi su tutto
Vittorio
Emanuele II, Cavour, Mazzini e Garibaldi; le differenti concezioni sul
ruolo del capo e delle masse negli artefici del Risorgimento
di Emilio Gentile
Per
oltre un decennio, dal 1848 al 1861, Torino fu l’epicentro di un
sommovimento politico e militare, ispirato ai nuovi ideali della nazione
e della libertà, che riuscì a realizzare, dopo tredici secoli dalla
caduta dell’Impero romano d’Occidente, l’unificazione della penisola in
uno Stato indipendente. Quattro furono i protagonisti principali:
Mazzini, Garibaldi, Vittorio Emanuele II, Cavour. Concordi nella meta
dell’indipendenza e dell’unità, fra loro i quattro furono antagonisti,
per motivi politici e umani.
Vittorio Emanuele e il suo ministro
Cavour operarono per l’unificazione detestandosi reciprocamente e con
scontri molto animosi, mentre condivisero l’odio per Mazzini, che li
ricambiò con eguale sentimento. Garibaldi, in un primo tempo seguace di
Mazzini, se ne distaccò, accantonando l’ideale repubblicano, per
collaborare con Vittorio Emanuele, al quale portò in dono il regno di
Napoli, mentre ebbe forte avversione per Cavour, mai perdonandogli la
cessione di Nizza, sua patria natale, alla Francia. A loro volta, il re e
il suo primo ministro mostrarono nei confronti del Duce dei Mille stima
e rispetto, ma accompagnati da sospettosa diffidenza.
Al di là
del loro antagonismo, i quattro artefici del Risorgimento incarnarono,
secondo le loro personalità fortemente diverse per origine, carattere,
formazione e convinzioni, differenti concezioni del ruolo del capo e
delle masse nella lotta per l’unificazione italiana.
L’era delle folle
Vittorio
Emanuele, re per grazia di Dio, fece propria la bandiera dell’unità e
della libertà, ma conservò tratti assolutistici nel modo di concepire il
ruolo di sovrano, al di sopra del popolo e del parlamento. All’opposto,
Mazzini e Garibaldi furono capi che si appellarono al popolo, e
volevano incitare le masse alla lotta per conquistare con le proprie
forze l’indipendenza, l’unità e la libertà. L’apostolato messianico
dell’austero repubblicano genovese e l’azione militare del fascinoso
Eroe dei due mondi furono decisivi per mobilitare folle patriottiche in
ogni regione d’Italia.
Entrambi diffidavano del regime
parlamentare a suffragio ristretto, preferendogli un governo a suffragio
universale e, se necessaria, una dittatura esercitata in nome del
popolo. Come effettivamente la impose Garibaldi, alla guida di una
entusiasta folla di camicie rosse, in Sicilia e a Napoli, durante la
conquista del regno borbonico, prima di consegnarlo al re di Sardegna,
che dal parlamento di Torino, il 17 marzo 1861, fu proclamato re
d’Italia «per grazia di Dio e volontà della nazione». La monarchia per
diritto divino, fu detto in quella occasione, era stata «rinnovellata
dal suffragio universale» attraverso i plebisciti, che sanzionarono
l’unificazione della penisola sotto la dinastia piemontese.
Invece
Cavour, pur proponendosi di emancipare le masse con la dignità della
coscienza nazionale e il governo liberale, fu ostile a moti popolari
rivoluzionari, non arringò mai le folle né aspirò, sebbene prepotente di
carattere, a un potere dittatoriale senza il parlamento: come deputato e
soprattutto come primo ministro, il conte concepì e svolse con
efficacia esemplare il ruolo di moderno leader parlamentare in una
monarchia liberale; mentre, con machiavellica abilità diplomatica, creò
le condizioni per porre il Piemonte alla guida del movimento nazionale
fino al compimento dell’unità.
Grazie all’azione di questi capi,
il Risorgimento fu uno degli eventi più importanti nel conflitto epocale
tra la sovranità monarchica per diritto divino e la sovranità popolare
per diritto umano, che fu iniziato dalla Rivoluzione americana e dalla
Rivoluzione francese. Per la prima volta in tutta la storia umana, capi e
folle agirono mossi dalla volontà di prendere nelle proprie mani il
proprio destino, abbattendo la plurimillenaria sovranità per diritto
divino.
Era iniziata l’era delle folle, come la definì nel 1895 il
francese Gustave Le Bon, una singolare figura di scienziato dal
multiforme ingegno, oscillante fra genialità e banalità nel porre le
basi fondamentali di una psicologia dei capi e delle folle, con opere
tradotte in molte lingue, che nei primi decenni del ’900 lo resero noto
nel mondo.
Il leader parlamentare
Le Bon citò Garibaldi come
esempio nella classe dei capi energici, «adatti soprattutto per
organizzare colpi di mano, per trascinare le masse attraverso i
pericoli, per trasformare in eroi le reclute della vigilia. […] Tale,
ancora ai giorni nostri, Garibaldi, avventuriero senza talento ma
energico, capace di impossessarsi, con un pugno di uomini, dell’antico
regno di Napoli difeso da un esercito disciplinato». Mentre citava
Cavour come esempio del ruolo decisivo del «grande uomo» nel successo di
un movimento storico: «Senza dubbio l’unità italiana sarebbe stata
realizzata, presto o tardi, ma senza l’intervento di un uomo di Stato
dal genio possente, essa sarebbe stata compiuta con molto ritardo».
Se
avesse meglio conosciuto la vita politica di Cavour, Le Bon avrebbe
potuto avvalersi dell’esperienza dello statista piemontese per svolgere
più approfondite riflessioni sulla figura del capo parlamentare, come
antitesi dei capi demagoghi, che si avvalgono del consenso delle folle
per instaurare un dominio personale. In Cavour, il sociologo francese
avrebbe riscontrato la coesistenza, nella stessa persona, di un forte
capo di assemblee parlamentari con una fede genuina nella civiltà
liberale. Anche se Le Bon, a differenza di Cavour, non era un entusiasta
del governo parlamentare, tuttavia, al pari dello statista piemontese,
reputava che nell’era delle folle, «le assemblee parlamentari
rappresentano lo strumento migliore che i popoli abbiano sinora trovato
per governarsi e, soprattutto, per sottrarsi il più possibile al gioco
delle tirannie personali».