sabato 3 dicembre 2016

La Stampa 3.12.16
E Donald sceglie il “Cane matto” per guidare il Pentagono
L’ex marine James Mattis teorico della linea dura con l’Iran
È la rivincita dei generali messi da parte da Obama
di Paolo Mastrolilli


Oltre al colore, che non manca, la scelta di James «Mad Dog» Mattis come capo del Pentagono di Trump significa almeno quattro cose: la quasi completa rivincita dei generali accantonati da Obama; la certezza del ripotenziamento delle forze armate; una politica più dura sull’Iran e più presente in Medio Oriente; e più prudenza nelle aperture alla Russia.
Mattis, un mito tra i marines che ha comandato in Afghanistan e Iraq, si è guadagnato il soprannome di «Cane rabbioso» per l’intensità della sua persona, il profilo da falco, e la retorica aggressiva: «Devi essere gentile e professionale, ma anche avere un piano per ammazzare chiunque incontri». Prima di partire per l’Afghanistan, aveva tenuto un discorso ai suoi uomini: «Andiamo a combattere contro tipi che da cinque anni prendono a schiaffi le donne, solo perché non portano il velo: sarà divertente sparare a questa gente, e io sarò in prima linea». Il suo comandante lo invitò a moderare il linguaggio, ma non lo punì.
Queste massime sono passate alla storia come «mattisms», una specie di filosofia per affrontare la vita militare e civile. Sarebbe sbagliato, però, dimenticare l’altro soprannome del nuovo capo del Pentagono, «Warrior Monk», cioè il monaco guerriero, a metà tra Yoda e Obi Wan Kenobi. Mattis infatti ha una biblioteca di oltre 7.000 libri, compreso il pensiero strategico dell’italiano Giulio Douhet per l’aviazione, perché «non mi danno tutte le risposte, ma aiutano a schiarire il buio che ci circonda». Quindi da lui bisognerà aspettarsi riflessione e prudenza, sebbene quando combatteva in Iraq avesse scelto come nome in codice «Chaos».
Michael Flynn, prossimo consigliere per la sicurezza nazionale, aveva inserito Mattis in un elenco di 4 generali epurati da Obama, che oltre a loro due comprendeva Stanley McChrystal e David Kiernen. Se ora David Petraeus diventerà segretario di Stato, la loro rivincita sarà completa e Trump avrà costruito una squadra di generali. Nel caso di Mattis al Pentagono, che richiederà una licenza speciale da parte del Congresso perché ha lasciato il servizio attivo da meno di 7 anni, gli investimenti promessi dal presidente eletto per far tornare le forze armate americane le più potenti al mondo sono garantiti. Nel 2013, poi, il nuovo segretario alla Difesa era stato sollevato in anticipo dall’incarico di capo del Central Command, perché si era opposto al negoziato nucleare con l’Iran. La sua scelta dunque annuncia una linea più dura verso Teheran, che Mattis considera la vera minaccia strategica di lungo termine in Medio Oriente, più dell’Isis, che sarebbe solo un prodotto temporaneo di questa destabilizzazione regionale. Il nuovo capo del Pentagono non è convinto che cancellare l’accordo nucleare convenga agli Usa, ma di certo vuole che la sua applicazione sia stringente, insieme agli altri Paesi che lo hanno firmato e all’Onu che lo garantisce. Poi, secondo fonti congressuali citate dal «Financial Times», la nuova amministrazione si appresta a colpire l’Iran varando nuove sanzioni che non riguardano il programma atomico, ma quello missilistico e la violazioni dei diritti umani. Così Teheran sarebbe penalizzata, senza però avere la scusa per aggirare gli obblighi dell’accordo nucleare e riprendere la corsa verso l’arma atomica.
Mattis pensa anche che la linea defilata di Obama in Medio Oriente sia stata un errore, perché ha creato il vuoto occupato non solo dall’Isis, ma in generale dall’instabilità. Questo non significa necessariamente l’inizio di una nuova fase interventista sul piano militare, ma di sicuro una presenza più forte, riorientata verso Israele e gli alleati tradizionali sunniti contro l’Iran sciita, a patto che smettano di aiutare l’Isis per usarla proprio contro Teheran. Sulla Russia, invece, la pensa diversamente da Trump. Secondo lui Mosca resta un rivale strategico e geopolitico degli Stati Uniti, e quindi spingerà il presidente alla prudenza nel dialogo con Putin.