giovedì 1 dicembre 2016

La Stampa 1.12.16
Nell’era Trump il supereroe è Pantera Nera
Apparso di sfuggita nel 1966, torna con i testi dello scrittore afroamericano Ta-Nehisi Coates
di Bruno Ventavoli

Agile come un felino, intelligente come Einstein (persino un po’ di più), saggio come Salomone. Il primo supereroe nero del fumetto americano possedeva tante virtù. Si chiamava Pantera Nera ed era frutto di due geni, Stan Lee e Jack Kirby, che lo inventarono come fugacissimo comprimario dei Fantastici Quattro nel 1966, all’alba del nuovo orgoglio nero innescato da marce dei diritti e decolonizzazione.
In quello stesso anno nascevano le Pantere Nere, l’organizzazione rivoluzionaria anarco-marxista. Mentre in Africa le nazioni fresche di indipendenza entravano una dopo l’altra all’Onu, ma non sempre trovavano la via giusta al postcolonialismo. Bokassa, tanto per trovare un esempio, che prese il potere sempre nel ’66, era uno che si sentiva supereroe sul serio, e buttava in pasto ai leoni chi non era d’accordo (o se lo mangiava lui stesso) come nei fumetti più pulp, peccato che facesse sul serio. Ma tornando al glorioso Pantera Nera in supertuta invulnerabile, in occasione dei 50 anni, la Marvel lo ha affidato per un’avventura speciale a Ta-Nehisi Coates, scrittore-saggista molto en vogue che si batte come un coguaro per i diritti civili e sradicare il razzismo, a suo avviso ancora florido negli States. Elegante d’aspetto Radicale, pugnace, ma fondamentalmente organico all’establishment (ha vinto il National Book Award e il Times lo considera tra i 100 uomini più influenti dell’anno), è simbolo di quella metà del Paese sconfitta dalle elezioni e ha attaccato duramente Trump «una minaccia mortale non solo per i neri».
Il suo Pantera Nera a strisce arriva in Italia in un bel volume Marvel-Panini Comics, Una nazione ai nostri piedi. I fantastici disegni sono di un talento come Brian Stelfreeze. I testi di Coates, filosofici e distopici, miscelano la cultura popolare del fumetto con la filosofia politica.
T’Challa (così si chiama la «pantera») è un re, discendente di re, laureato in fisica e agile come un predatore, governa Wakanda, paese ricco e prospero. Sarebbe il più avanzato del mondo grazie al vibranio, un minerale miracoloso piovuto dal cielo con un asteroide, ma è sull’orlo della guerra civile perché la gente manovrata da oscuri mestatori ha perso fiducia nel capo. Come in una tragedia shakespeariana serpeggiano congiure, violenze, malvagità. Mentre il re deve ritrovare se stesso, lottando contro i propri fantasmi, per tornare ad essere tutt’uno con il popolo e usare «l’anima» insieme a forza e giustizia nell’arte del governo. Ha a che fare con belle pretoriane indomite e guerrieri zulu, terroristi che paiono jihadisti con turbante e kalashnikov, sciamani e un filosofo dissidente con una lunga chioma rasta che cita Locke per parlare di come il debole possa usare la giustizia contro il potente. Lo scenario è quello di un’Africa lussureggiante contaminata da architetture urbane futuribili.
Insieme al fumetto, esce anche il potente pamphlet che Coates ha lanciato nello stagno della discussione politica. S’intitola Un conto ancora aperto (Codice edizioni) e chiede di risarcire i neri d’America per il peccato originale della schiavitù (Locke torna anche qui, con una citazione in esergo dal Secondo trattato sul governo), perché la prosperità americana è stata ottenuta in modo illecito, con il lavoro, lo sfruttamento, le violenze subite da quattro milioni di esseri umani ridotti a macchine per produrre plusvalore. Talmente spersonalizzati che esistevano riviste illustrate con consigli su come usarli al meglio, alle quali i padroni si abbonavano come fossero consigli d’arredamento o ricette culinarie.
Certo, l’istituto della schiavitù finì formalmente con la guerra di secessione. Ma l’emarginazione, la povertà, la violenza, sono proseguiti, perché si tratta di una colpa collettiva del Paese. E non solo di perfidi confederati spazzati via col vento del nord liberale. Gli ex schiavi non ebbero praticamente alcuna chance di riscatto economico né di diventare padroni delle terre che avevano fertilizzato con sangue e sudore. Coates ripercorre angherie, linciaggi, intimidazioni, e anche strategie finanziarie apparentemente legali, attuate da banche e speculatori edili, per fregare i neri anche quando, onestamente, cercavano di diventare borghesi e comprarsi una case.
Di truffa in violenza si arriva all’oggi. Dove nonostante un nero alla Casa Bianca il razzismo è ancora vivissimo, come Coates sostiene in Tra me e il mondo (Codice), altro pamphlet in forma di lettera al figlio 15enne per spiegare perché i neri vivono nei ghetti e i poliziotti possono accopparli. Conclusione: il risarcimento ai neri è il prezzo da pagare economico, ma soprattutto etico, catartico, per cancellare una colpa e costruire, anche psicologicamente, l’America nuova pienamente democratica.
Pretesa folle? No, dice Coates, perché la formula del risarcimento è stata un successo nel dopoguerra quando la Germania indennizzò Israele per l’Olocausto. Più o meno si dovrebbe seguire lo stesso schema. Ma il ragionamento ha procurato attacchi. Non dei suprematisti bianchi, come sarebbe stato ovvio. Ma, più inattesi, dei terzomondisti filoarabi. Perché Coates s’è scordato la violenza perpetrata sui palestinesi e come se non bastasse cita in esergo un passo del Deuteronomio. Insomma, è un «sionista». Etichetta che lui, nero radicale, forse non pensava di vedersi affibbiata. Ma nel mondo reale, come a Wakanda, non è facile lanciare idee senza essere fraintesi e attaccati. La politica è un mostro che ama divorare le migliori intenzioni. Ecco perché servono supereroi con superpoteri per neutralizzare la gran confusione delle pubbliche opinioni.