La Stampa 1.12.16
Come fermare l’avanzata dei populisti
di Franco Bruni
La
vittoria di Trump stimola riflessioni sul populismo: di che cosa si
tratti davvero, quali le cause e le reazioni più opportune. L’idea più
diffusa è che globalizzazione e tecnologia, inadeguatamente governati,
portino nel mondo vantaggi economici e culturali ma anche costi di
cambiamento, generando vincenti e perdenti. I perdenti sono impoveriti e
protestano. I politici populisti catturano la loro protesta e la
scagliano semplicisticamente contro le élite e gli «stranieri»,
promettendo l’impossibile (quando non l’insensato) e guadagnando voti.
Per rimediare occorre «compensare i perdenti», ridistribuendo reddito e
ricchezza a loro favore, con tasse, trasferimenti (anche internazionali)
e nuovo welfare, così da farli smettere di svendere i loro voti a chi
li usa in modo opportunistico, inconcludente, a volte pericoloso.
Diagnosi e ricetta sono state fatte proprie ufficialmente anche dal Fmi.
Circolano
però altre idee, non incompatibili con questa. In un bell’articolo su
Project Syndicate, il Nobel Robert Shiller dice che in Usa lo
spostamento dei voti determinante non è stato quello dei poveri, per i
quali una ridistribuzione di redditi potrebbe essere soluzione
accettabile, ma quello «di chi si considera classe media e vuole che le
sia restituito potere economico», di chi non vuole ridistribuzioni
caritatevoli, ma «tornare a controllare la propria vita economica».
Shiller arriva a fare un parallelo col marxismo, che metteva in primo
piano una rivoluzione di potere. Conclude un po’ sconsolato perché è
molto più difficile ridistribuire potere che denaro.
Il mancato
buon governo della globalizzazione e della tecnologia ha causato
incertezza e un disorientamento che non colpisce solo gli ultimi. Il
mondo si complica e l’elettore medio teme di perdere il controllo di ciò
che conta nella sua vita. Non si fida delle indispensabili deleghe che
deve concedere a chi decide lontano da lui. Perché mai, per suo conto,
in sedi remote, qualcuno può fare accordi sugli ogm, sulla possibilità
che falliscano le banche o che il lavoro sia sostituito da robot? Meglio
non fidarsi, puntare sulla politica km zero e su forme di democrazia
diretta. L’invidia dell’America più rurale per i privilegiati delle
grandi città emerge dalle ricerche sul voto Usa e traduce la sfiducia
nelle élite. Sfiducia che si ritrova in Europa, in forme diverse, nei
populismi anti-Bruxelles.
In parte i comportamenti spesso
sprovveduti, ipocriti, autoreferenziali, eticamente riprovevoli delle
élite pubbliche e private, politiche e finanziarie, professionali e
intellettuali, meritano sfiducia e rottamazioni. Ma la crescente
complessità del mondo è inevitabile. Cercare chiusure difensive non può
che peggiorarne l’esito, per tutti. Governare la complessità richiede
deleghe, a volte molto indirette, esercitate, con indipendenza, lontano
dai deleganti di base.
Le deleghe dovrebbero essere di qualità e
con severo rendiconto, a scadenza, di come sono state usate. Dovrebbero
perseguire quella cosa difficile da interpretare che è l’interesse
collettivo; con i delegati che avvertono su di sé l’occhio dell’elettore
medio, al quale il mondo moderno offre nuove opportunità ma sottrae
potere diretto sulle condizioni della propria vita. Occorrerebbe
riconquistare la sua fiducia nell’intelaiatura sempre più complessa del
potere economico e politico.
Gli sgravi fiscali per i ricchi del
programma Trump non rispondono al bisogno di ridistribuzione. Ma ancor
più grave sarà la delusione di chi ha interpretato il suo «rifare
l’America grande» come una promessa di tornar grande lui stesso, con più
controllo su ciò che gli sfugge. Dovremmo comunque tutti impegnarci a
non curare solo la povertà economica ma anche i complessi di inferiorità
politica che rendono il nostro mondo sfiduciato circa virtù e capacità
di chi lo guida. Il ridisegno delle forme di «governance» è compito
urgente e congiunto di politologi, sociologi ed economisti, stimolati da
cittadini capaci di guardare con più sincerità e profondità ai propri
disagi.