martedì 13 dicembre 2016

La Stampa 13,12.16
Torna la tortura è il fallimento della modernità
di Federico Vercellone

La tortura che la cultura illuminista aveva solo idealmente cancellato dai propri orizzonti è rientrata con forza nel panorama politico mondiale. E non si tratta di un ritorno sotterraneo, come ci ricorda Donatella Di Cesare nel suo libro Tortura (Bollati Boringhieri). Il terrorismo ha scatenato reazioni radicali intese a rilegittimare la necessità di questo supplizio come se, dinanzi a estremi mali, fosse concesso rispondere con i sempre inefficaci estremi rimedi. Nessuno come Kafka, in La colonia penale, ha saputo individuare la logica della tortura, che è una logica dell’iscrizione in corpore vivi del castigo e della sottomissione. «La politica della tortura è, alla fin fine», scrive Di Cesare, «una politica del terrore. Sul corpo torturato si imprime la presenza scatenata del potere sovrano».
In una logica liberale la tortura costituisce una pura disfunzione, un andamento patologico della sovranità. Essa si configura, agli occhi dell’opinione pubblica, come una sorta di reviviscenza dell’arcaico nella contemporaneità. Tuttavia le cose non vanno affatto in questo modo. Paradossalmente la tortura prelude e si adatta bene alla globalizzazione, anche perché le sue tecniche e i suoi mezzi sono facilmente esportabili. La questione diviene ancora più angosciosa dinanzi all’evidenza inquietante che la tortura non si è fermata con la caduta della cortina di ferro. Essa è compatibile con la democrazia e con la sua opinione pubblica, come risulta da uno studio di Darius Rejali del 2011 che acclara, sulla base di dati recenti, come la maggioranza dell’opinione pubblica, nell’era post-Obama, fosse favorevole alla tortura.
Se la tortura non esprime un’identità atavica ma appartiene anche al mondo contemporaneo e ai regimi democratici che talora la adottano, che conclusioni possiamo trarne? Innanzitutto che la tortura rende palese la tragica impotenza dell’Illuminismo, l’incombente fallimento di una modernità che si sente assediata nel proprio benessere e nei valori-guida. L’etica della testimonianza, il ferreo imperativo a non tacere, a cui pur doverosamente ci invita Di Cesare, non è, da questo punto di vista, un’arma da sola efficace per combattere la più efferata delle violenze dell’uomo sull’uomo. L’ineluttabile scommessa che qui si propone è quella di una rifondazione del patto sociale su basi più eque e condivise che sottraggano le logiche del potere a quella della violenza vittima-carnefice.