domenica 11 dicembre 2016

La Stampa 11.12.16
Inseguendo il modello tedesco
Così nelle fabbriche italiane cambia il contratto collettivo
Sempre più frequente il ricorso ai giudici “Sono entrati in crisi gli accordi nazionali”
di Alessandro Barbera

Metalmeccanici che diventano artigiani. Dipendenti di supermarket fuori dal settore del commercio e imprese edili che invece ci rientrano. Sindacati improvvisati per la firma di un contratto, aziende e lavoratori disinteressati a farsi rappresentare. Qual è la mappa del lavoro in Italia oggi?
Al netto dei proclami sindacali sull’importanza del contratto nazionale, sempre più imprese e lavoratori preferiscono farne a meno. Il caso Fiat, uscita da Confindustria per avere più libertà nell’organizzazione dei suoi stabilimenti ed esempio di successo per chi crede in regole diverse, è solo la punta dell’iceberg di un sistema di relazioni industriali che cambia rapidamente.
Nell’ultima legge di bilancio il governo ha deciso di incentivare sempre più la firma dei contratti aziendali: chi lo farà pagherà per la quota di salario variabile il dieci per cento di imposte fino a quattromila euro, il doppio di quanto in vigore. Il principio di fondo è quello di migliorare salari e produttività in un mercato che fatica a migliorare gli uni e gli altri. Il caso tedesco è significativo: dopo la riunificazione la Germania Est somigliava in tutto e per tutto al Mezzogiorno. Dal 2001 in poi l’accordo fra governo e sindacati ha creato le condizioni per quello che oggi è un sistema in piena occupazione e nel quale le retribuzioni sono nettamente più alte della media italiana. Anche in Italia governo e sindacati hanno firmato accordi in questo senso, l’ultimo risale a due anni fa. Ma la disoccupazione resta inchiodata all’11,6 per cento: evidentemente non basta. Le sentenze dei tribunali del lavoro non possono essere esaustive del problema, ma aiutano a capire il fenomeno. Prendiamo quella del Tribunale del lavoro di Napoli, 28 luglio 2015: un’agenzia assicurativa si sgancia dalla sua rappresentanza nazionale - «l’Associazione delle compagnie assicurative» - per aderire alla «Associazione degli agenti di compagnie di assicurazione». Disdetta il contratto nazionale, stipula il nuovo contratto con sindacati diversi da Cgil, Cisl e Uil a condizioni peggiorative. La Cgil chiede al giudice la condanna per comportamento antisindacale, che viene respinta. Il giudice spiega che «allineare il trattamento economico dei lavoratori verso il basso costituisce un fattore di distorsione della concorrenza» ma ammette che non si può imporre «l’estensione autoritativa della contrattazione collettiva».
Oggi l’accordo firmato fra Confindustria e sindacati dice che i contratti nazionali possano derogare a pressoché tutte le condizioni degli accordi collettivi, salvo che modificare la struttura della retribuzione. «Ma ciò significa anche impedire la modifica degli inquadramenti, e questo è un punto decisivo», evidenzia il giuslavorista Pietro Ichino. C’è un problema ulteriore che contribuisce ad alimentare l’incertezza: la mai risolta questione della rappresentanza sindacale. Sembrerà incredibile, ma a quasi settant’anni dalla sua introduzione, ancora oggi il quarto comma dell’articolo 39 della Costituzione resta inapplicato. «I sindacati possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie». Spiega Maurizio Del Conte, giuslavorista come Ichino e presidente dell’Anpal: «Da anni Confindustria e sindacati cercano di mettersi d’accordo per regolare una volta per tutte il problema dei due livelli. Ma ciò presupporrebbe che si decida chi rappresenta dove. Poiché la legge non dice cosa sia esattamente un contratto nazionale, ciascuno si organizza come crede e nascono piccole associazioni di categoria». Un fenomeno che «sta creando problemi più a Confindustria che ai sindacati».
Dice il segretario confederale Cisl Gigi Petteni: «Ormai prima si firma il contratto e poi ci si organizza in associazione. La rappresentanza si sta polverizzando. Il risultato è che all’interno di singole imprese si trovano decine di contratti. Ora, una cosa è applicare ai dipendenti delle pulizie il contratto delle pulizie. Altra cosa è trovarsi di fronte a cinque contratti diversi dentro un cantiere edile». Sindacati e Confindustria discutono di modello contrattuale da anni, e da anni cercano un accordo senza ricorrere ad una legge, come invece accaduto in Francia. Ma i sindacati non sono sulla stessa linea: la Cgil - sostenuta da un pezzo di Confindustria - tiene il punto sulla prevalenza del contratto nazionale, Cisl e Uil spingono perché prevalga il livello territoriale. Il governo - quello di Renzi è solo l’ultimo - promette che in caso di mancato accordo sarebbe intervenuto per legge, ma finora così non è stato. «Se non si risolve il problema della rappresentanza il contratto aziendale non servirà più a completare quello nazionale ma finirà per confliggere», sottolinea il responsabile economia Pd Filippo Taddei. «Qualunque sarà il nuovo governo occorrerà affrontare una volta per tutte questo problema». Di esempi di aziende che si sono risolte il problema da sole trovando ascolto nei giudici del lavoro ce ne sono centinaia. Dalla disapplicazione del contratto dei metalmeccanici da parte della Ericcson allo scontro fra la grande distribuzione e Confcommercio. C’è chi - come a Treviso - cerca soluzioni alternative applicando i benefici dei contratti aziendali alle aziende più piccole escluse dalla legge. Ichino è netto: «Il primo a pagare un prezzo a questo stato di cose è il Sud. Lo dimostra il fatto che lì sono pochissime le aziende iscritte a Confindustria, e la ragione è che solo poche imprese sono in grado di garantire i minimi contrattuali che al Nord risultano normali».