La Stampa 11.12.16
Effetto Jobs Act, crescono i licenziamenti disciplinari
Aumento
del 28% nei primi otto mesi del 2016. E c’è anche chi ha perso il posto
mentre era in malattia o per contestazioni senza prove
Referendum.
La Cgil ha depositato le firme in Cassazione per ripristinare
l’articolo 18, cancellare i voucher, ristabilire la responsabilità in
solido di appaltatore e appaltante per violazioni verso il lavoratore
di Giacomo Galeazzi
Da
un anno e mezzo, dal marzo 2015, il Jobs Act sta ridisegnando i
rapporti di lavoro in Italia. Tra gli effetti rilevati dall’Osservatorio
sul precariato dell’Inps, l’innalzamento dei licenziamenti disciplinari
(+ 28% nei primi 8 mesi del 2016). Per capire se sia una conseguenza
inevitabile della riforma, La Stampa ha messo a confronto storie di
lavoratori che quest’anno hanno perso il posto con esperienze sul campo
di consulenti, avvocati, economisti ed imprese.
«Il Jobs Act
rappresenta un forte deterrente nelle relazioni aziendali e ciò ha
indubbiamente provocato un cambio di paradigma - spiega l’avvocato
Giorgio De Stefani che da trent’anni a Roma offre assistenza legale
civile anche nel diritto del lavoro -. Con l’introduzione delle nuove
norme, nel mondo del lavoro è mutato il clima psicologico-culturale.
Soprattutto in aziende medio-grandi in crisi, nelle situazioni nelle
quali prima si soprassedeva o si cercava una mediazione, adesso il
datore di lavoro è più portato ad andare per le spicce perché dispone
dello strumento tecnico per poterlo fare. Si tollera di meno, specie se
non c’è un rapporto di conoscenza col dipendente».
Così crescono
soprattutto i licenziamenti individuali per ragioni disciplinari,
proprio quelli cioè sui quali è intervenuto il Jobs Act con il contratto
a tutele crescenti. E per i nuovi assunti niente reintegra nel posto di
lavoro in caso di ingiusto licenziamento. «L’aumento registrato
dall’Inps non è dovuto tanto alla legge in sé, quanto all’abuso che ne
viene fatto», sottolinea la consulente del lavoro Monica Melani. In un
anno i licenziamenti per giusta causa e giustificato motivo soggettivo
sono passati da 36.048 a 46.255, con un aumento appunto del 28%. Intanto
i sindacati ricevono molte richieste di aiuto e i tribunali si
riempiono di ricorsi.
Dimissioni imposte
Tra questi casi c’è
quello di Domenico Rossi, che per 35 anni ha lavorato come ausiliare
alle vendite e cassiere al supermercato Carrefour di via XXI settembre,
nel centro di Roma. Mai richiami, contestazioni o situazioni di
conflitto fino allo scorso 3 giugno, quando è stato licenziato. Secondo
l’azienda «è stato sorpreso, con merce non regolarmente acquistata,
nell’atto di lasciare il punto vendita». Eppure, racconta Rossi, «quando
i poliziotti hanno visionate le immagini delle telecamere interne, non
hanno trovate niente di irregolare». Infatti, aggiunge, «come facciamo
sempre noi dipendenti, ero passato dietro le casse per evitare la coda
dei clienti, ho pagato tutto e alla vigilanza che mi ha fermato ho
mostrato lo scontrino della spesa che avevo nella busta». Continua: «Mi
hanno perquisito e lasciato in piedi per due ore davanti ai clienti che
passavano, poi mi hanno ripetuto più volte che l’unica cosa che mi
restava da fare era presentare immediatamente le mie dimissioni per non
andare incontro a conseguenze peggiori. Possono fare una cosa del
genere?».
L’azienda gli contesta di aver abbandonato nel
supermercato confezioni di cibo aperto e di non aver pagato due
prodotti. Carrefour assicura di non licenziare con leggerezza (visti i
«risvolti sulla vita delle persone») e che contro Domenico Rossi ci si è
basati «esclusivamente su quanto comprovato dalle risultanze
aziendali». Situazioni che ripetono analoghe in tutta Italia. «Non
vengono spalancate indiscriminatamente le porte d’uscita, né si assiste a
esodi di massa, ma senza lo spauracchio della reintegra molte aziende
medie e grandi si arrischiano in licenziamenti che prima del Jobs Act
avrebbero evitato» afferma Giovanni Guizzardi, consigliere dell’ordine
dei consulenti del lavoro di Bologna. Il cinquantenne Antonio Ettore
Ambrosini per 28 anni ha lavorato come cameriere ai piani e poi come
maitre d’hotel in uno storico albergo di Roma, il Victoria, a due passi
da via Veneto. In seguito alla separazione della moglie nel 2011 aveva
usufruito di 6 mesi di aspettativa non retribuita per un esaurimento
nervoso. «Tornato in servizio non ho più avuto problemi finché,
nell’ultimo periodo, il nuovo direttore dell’hotel mi ha preso di mira
rimproverandomi pubblicamente per qualunque cosa, anche per come
disponevo le tazze sui tavoli della prima colazione - ricostruisce
Ambrosini -. Per il continuo stato di stress e di ansia ho avuto un
collasso sul lavoro e sono stato soccorso da un’ambulanza». Ad agosto è
stato «licenziato e liquidato con il Tfr e con due buste paga da 1400
euro: l’azienda sostiene di avere testimoni per dimostrare che sono
stato trovato ubriaco in servizio e che mi sono addormentato mentre
aspettavo le ordinazioni ai piani». Ma «non è vero», protesta, «dovevano
tagliare il personale e le spese, così sono finito io nel mirino».
Aria più pesante nelle ditte
Il
manager dell’hotel, Filippo Guzzardi oppone un «no comment» alla
richiesta di un chiarimento sulla vicenda. «Rossi è accusato di furto e
Ambrosini di ubriachezza in servizio: mancanze gravi se accertate, ma in
entrambi i casi i datori di lavoro sembrano avere prove piuttosto
labili», osserva l’economista Giuliano Cazzola, tra i massimi esperti di
lavoro e previdenza: «Nel Jobs Act c’è uno scambio tra contratti più
stabili e minore rigidità nella risoluzione del rapporto di lavoro -
evidenzia Cazzola, che ha insegnato all’università di Bologna ed è stato
vicepresidente della commissione lavoro della Camera -. Finora i
giudici sono stati di manica larga anche di fronte a responsabilità vere
dei lavoratori». Ambrosini ha gli occhi lucidi e si commuove: «Ora tiro
avanti con il trattamento di fine rapporto che mi stanno pagando in tre
tranche, ho sempre pagato gli alimenti per mia figlia - scuote la
testa. Mi hanno tolto il lavoro, la dignità. Al momento della
contestazione mi sono sentito male e sono stato licenziato durante
malattia, cosa che non si può fare. L’azienda sostiene che il
licenziamento per giusta causa supera anche il divieto di cacciare un
lavoratore mentre è malato».
È cambiata l’aria o è solo più
pesante? «Nelle riorganizzazioni dovute alla crisi, i margini di
sopportazione delle aziende sono ormai all’osso - testimonia Paolo
Stern, coordinatore del Centro studi dei consulenti del lavoro di Roma
-. La ripresa c’è solo in alcuni segmenti imprenditoriali ed è a macchia
di leopardo. Prima nella ditte c’erano dei “tesoretti” con cui si
potevano ripianare le inefficienze, oggi no». Perciò «in situazioni di
sofferenza, se si incrina un rapporto di fiducia con un dipendente, il
datore di lavoro è spinto a rischiare il giudizio dei magistrati pur di
recuperare efficienza liberandosi di chi è poco produttivo - chiarisce
Stern -. Prima si poteva ovviare con margini più alti, adesso mancano i
mezzi per farlo». Un quadro allarmante «non direttamente imputabile al
Jobs Act», accade lo stesso «nella rinegoziazione dei contratti di
consulenza e per la fornitura servizio». Insomma, quando si tratta di
occupazione, mal comune non fa mezzo gaudio.