domenica 4 dicembre 2016

Il Sole Domenica 4.12.16
Grandi archeologi / Sergio Donadoni (1914-2015)
L’egittologo militante
Ricordo dello studioso scomparso un anno fa: l’ansia civile e morale di proporre al suo tempo l’antico Egitto come patrimonio di tutti
di Salvatore Settis

La città di Torino ha voluto ricordare la figura di Sergio Donadoni (1916-2015), grande egittologo normalista che collaborò al salvataggio dei templi rupestri di Ellesija e Abu Simbel. La commemorazione - avvenuta all’Accademia delle Scienze di Torino - è stata affidato a Salvatore Settis. Dal suo discorso è tratto l’articolo qui pubblicato.

Il grande egittologo Sergio Donadoni è morto nel 2015, a 101 anni di età, ma un suo libro conserva la temperatura pionieristica di quando fu scritto: Arte egizia (Einaudi, 1955). La passione scientifica e civile che lo anima colora l’iniziale Avvertenza: «Queste pagine sono state scritte subito dopo la guerra, e per ragioni varie solo ora vedono la luce, ma questo scritto aveva per me uno scopo, allora, assai più profondo. Era legato a una domanda estremamente impegnativa che, al limite di un nuovo inizio di vita civile, mi ponevo sulla validità di quello studio che era il mio. Che l’arte dell'Egitto antico potesse apparirmi così ricca di motivi umani, così profonda di esperienze storiche, fu elemento di una rinnovata fiducia che ho consegnato a queste pagine. Per questo non le ho ritoccate, e mi auguro che anche per altri esse abbiano quel valore di prova che hanno avuto per me».
Arte egizia è dunque un libro del primissimo dopoguerra, e come tale entra nella mappa dei testi che tentarono di rilanciare, a beneficio delle nuove generazioni, gli studia humanitatis che gli orrori della guerra sembravano aver sepolto. Tale fu ad esempio il grande libro di Ernst Robert Curtius, Europäische Literatur und Lateinisches Mittelalter (1948), incentrato sugli interscambi fra letterature di popoli che avevano appena combattuto fra loro. Tale Die Kultur der Antike di Ernst Howald (1948), che legge la civiltà europea come una lunga memoria culturale caratterizzata dalla “forma ritmica” di un ciclico ritorno. Anche Arte egizia appartiene al novero di quei libri “post-traumatici”, volti a ricucire la trama della vita civile di un’Europa più degna. Perciò la sua lettura dell’arte egizia è improntata a una forte empatia, che presuppone e ingloba la distanza storica attraverso l’assiduo esercizio della filologia e dell’archeologia dei fatti e dei saperi.
Arte egizia fu il V volume della Biblioteca d’arte Einaudi, diretta da Carlo Ludovico Ragghianti, normalista degli stessi anni in cui lo fu Donadoni. La collana pubblicò solo sei volumi: Sculture del Duomo di Siena di Enzo Carli (1941), Niccolò dell’Arca di Cesare Gnudi e Michelangelo fino alla Sistina di Aldo Bertini (entrambi del 1942); Andrea Palladio di Roberto Pane (1948), e infine, dopo Arte egizia di Donadoni, Pittura e Controriforma di Federico Zeri (1957). Il libro di Donadoni appartiene alla fase immediatamente post-bellica della collana, e le impegnate dichiarazioni dell’Avvertenza vanno spiegate in quel contesto. Scrivendo a Ragghianti nel 1941, Giulio Einaudi ne aveva infatti indicato chiaramente lo scopo: «interessare un largo pubblico, e suscitare sorpresa per la novità del materiale illustrativo, oltre che per l’accuratezza delle indagini critiche, che non devono avere sapore accademico, ma essere aderenti alle necessità culturali e artistiche del nostro tempo».
Strumenti di conoscenza dell’arte egizia furono per Donadoni l’analisi formale e la dialettica fra due poli opposti ch’egli chiama “intellettuale” e “sentimentale”, che convergono in una dimensione espressamente morale. La sua analisi formale presuppone quella del suo maestro di storia dell’arte a Pisa, Matteo Marangoni (autore del celebre Saper vedere, 1933), ma dialoga anche con Ragghianti che di Marangoni era stato allievo, con Roberto Longhi e Ranuccio Bianchi Bandinelli. È in questo ambito discorsivo che Donadoni costruisce raffinate analisi formali che, attraverso un lessico sperimentato per l’arte di altre età, vogliono trasportare quelle opere remotissime in uno spazio affine a quello in cui può parlarsi di un kouros greco o di una tavola di Giotto.
Per lui, «la necessità di ricostruire la temperatura morale di quella civiltà ci fa considerare con altri occhi» i suoi monumenti, a patto di «non strapparli da un complesso vitale di esperienze morali». In questa moralità dell’arte egizia risiede l’ethos dello storico, che in quel «complesso vitale di esperienze morali» intende cercare «le controprove dei nostri giudizi». E se tale impresa è da essere storicamente fondata, il principale nemico è la soggettività dell'interprete. Perciò Donadoni ripudia lo «stato fittizio di ipersensibilità» del critico, quand’egli cerca di «afferrare il valore» delle opere analizzate: perché «non appena cerchiamo di cacciare più addentro lo sguardo, subito vediamo che la prima impressione si sfalda, si sgretola, non ha saldi punti d’appoggio», e dunque non resta che l’opzione per una critica storicamente fondata. Ad essa, in queste pagine, si affianca la distinzione tra “edonismo” e “ascetismo”, come quando una testa della IV Dinastia vien letta come un «gioco con la bellezza fisica della figura, rappresentata per farla sembrare altro da sé», laddove «un finto edonismo rappresentativo maschera l’ascetismo della struttura formale». L’edonismo, che in questo brano è nell’operare dell’artista, insidia però soprattutto il critico: i rilievi di Khufukhaf con la moglie «si possono gustare senza il rischio di valutarli edonisticamente», ma solo se si tien presente un orizzonte culturale entro il quale «la concezione geometrica della scultura menfita», ricorrendo identica anche nella pittura, «testimonia l’unicità del punto di partenza morale». Donadoni non espelle dunque l’“edonismo” dalla pratica artistica, ma lo vuole controllato e secondario nell’attività dell’interprete; in altri termini, mentre va costruendo una storia dell’arte egizia in dialogo con la storia dell’arte moderna, egli respinge una radicale estetizzazione che può tradursi in illusoria certezza di aver tutto compreso.
La dimensione morale dell’artista antico redime, per Donadoni, ogni suo artificio, anche quelli intesi alla ricerca di una bellezza che rischia di apparirci, e non è, “senza tempo”. Nella civiltà menfita, egli scrive, «la transustanziazione artistica si attua su una sostanza logica, o addirittura matematica, che si fa sentimento», ma secondo «il rigore di una posizione morale che tronca alla base ogni possibile interpretazione edonistica». I problemi formali dell’artista, insomma, «non ammettono soluzioni “gustose”. Sono il suo modo di vivere, non il suo modo di divertirsi». L'opposizione della dimensione “sentimentale” a quella “intellettuale”, con la quale può tuttavia conciliarsi grazie a un duro impegno morale, è così ricorrente nel libro da diventarvi essenziale non meno della puntuale conoscenza dei monumenti e del loro contesto storico.
La definizione di una “moralità” che appartiene all’artista egizio, ma si riflette nell’etica dell’interprete, è per Donadoni il veicolo di una profonda empatia che trasporta l’arte egizia nell’orizzonte contemporaneo. Come in una perpetua osmosi di temi e di valori, il lavoro dell’interprete ha senso solo in quanto si sforzi di ricostruire archeologicamente la moralità dell’artista. Perciò Donadoni ricorre a un linguaggio critico sorvegliato e penetrante, che è tutto del suo (del nostro) tempo, ma finalizzato a trasmettere al lettore quella stessa moralità dell’artista antico che è, con ritmo sempre più incalzante, il Leitmotiv del volume.
La funzione formale della luce innesca alcune delle pagine più felici del libro, come ad esempio quando Donadoni, parlando di «occhi in luce dentro l’orbita in ombra», traduce la tensione ecfrastica della prosa d’arte (che Longhi aveva portato a grandi altezze) in definizione, quasi artigianale, di una «ricerca luministica» plausibile entro l'orizzonte morale del “suo” artista egizio. Altrove, mentre la prosa d'arte resta cornice del discorso, domina lo specifico riferimento alla cultura egizia, e al carattere misto, figurativo e sillabico, della scrittura geroglifica. «Spesso il pittore egizio ha concepito per elementi particolari, che ha affiancato gli uni agli altri, senza interpunzioni». E subito spiega : «come tocca a noi interpungere i testi, così tocca a noi interpungere le figurazioni», dove per “interpunzione” s’intende l'organizzazione dello spazio, la gerarchia rappresentativa, la strategia compositiva, dato che anche dove «il ritmo è l'elemento protagonista, la composizione è il problema che l'artista si è posto», e che la composizione coinvolge «la nitida definizione delle membra, la compostezza e l'equilibrio dei corpi».
Nella bellissima intervista concessa ad Antonio Gnoli e pubblicata su Repubblica (21.6.2015), Donadoni evocava i suoi studi pisani, il fascino di docenti come Bianchi Bandinelli e Marangoni, la frequentazione a Parigi di Gianfranco Contini («nessuno, lo dico con la massima riconoscenza, mi è stato di insegnamento come lui»). Ricordando un incontro con Berenson (che lo volle incontrare dopo aver letto Arte egizia, «colpito dall’ottimismo e dalla competenza con cui era stato scritto», Donadoni si riallaccia alle sue intenzioni del 1948: discorrere di arte egizia con l’austero bagaglio di uno specialista, ma con vastissima curiosità intellettuale, con l’ansia morale e civile di proporre al suo tempo la cultura figurativa dell’antico Egitto come un patrimonio a tutti comune. Questo il messaggio che ci lascia Sergio Donadoni: un impeto civile a comprendere a fondo l’arte di un’altra età, ma attraverso i linguaggi e i problemi del nostro tempo.