domenica 4 dicembre 2016

Il Sole Domenica 4.12.16
Claudio Pavone (1920 - 2016)
Resistente nella «guerra civile»
Addio allo storico che ha rifondato lo studio della lotta partigiana, grazie a una miscela
sapiente di esperienza diretta, scavo d’archivio e sensibilità letteraria
di Sergio Luzzatto

Nella cultura italiana, l’opera di Claudio Pavone è maturata come un frutto tanto più succoso quanto più tardivo. Tardivo rispetto all’itinerario biografico dell’autore, se è vero che il suo opus magnum – Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza (Bollati Boringhieri, 1991) – fu pubblicato quando Pavone aveva più di settant’anni. E tardivo rispetto al nocciolo delle cose, se è vero che il contributo essenziale di Pavone – assumere in pieno il valore storico della Resistenza come guerra civile – corrispondeva a qualcosa di originale per la storiografia, non certo per la letteratura. La quale, negli esempi più alti di narrativa resistenziale (da Calvino a Fenoglio, da Questi a Meneghello), per vent’anni dopo il 1945 non aveva detto altro che questo: che la Resistenza italiana era stata anzitutto una guerra civile.
Ma gli storici della Prima Repubblica non leggevano romanzi. O piuttosto, senza ironia: molti storici italiani “di sinistra” si erano dati per compito, dagli anni Sessanta in poi, di ripicchiare sui cliché della mitologia resistenziale. In particolare sul cliché comunista del «popolo alla macchia», secondo cui la Resistenza era stata non già scelta difficile di pochi, ma mobilitazione entusiastica di tutti o di quasi tutti. Sicché di guerra civile, nei libri e nei manuali di storia contemporanea, non bisognava proprio parlare. Il semplice evocarla pareva infatti legittimare l’idea – percepita come mantra neofascista – che si fossero affrontati, dal 1943 al ’45, due soggetti comparabili per natura, seppure contrapposti per valori. Due parti d’Italia: i partigiani (nomen omen ) e i saloini. Al limite, niente più che due fazioni.
Rispetto ad altri storici di sinistra, il vantaggio di Pavone era che lui l’aveva combattuta, quella guerra civile. Nato nel 1920 – apparteneva dunque lui stesso alla generazione dei grandi narratori resistenziali – il rampollo della buona borghesia romana era stato colto in divisa, come tutti gli italiani sotto le armi, dall’armistizio dell’8 settembre. Aveva aderito al Partito socialista clandestino, era stato arrestato, si era fatto un anno di galera nelle prigioni della Repubblica di Salò. Liberato, si era rigettato nell’attività clandestina, in Alta Italia, come militante di un Partito italiano del lavoro collocato all’estrema sinistra del fronte resistenziale. E aveva vissuto in prima persona la «rossa primavera» del 1945, quando le bande a lungo sparute dei partigiani della montagna si erano gonfiate di innumerevoli antifascisti della venticinquesima ora. Fino alla macabra scena milanese di piazzale Loreto, che pure Pavone aveva vissuto di persona.
In altre zone della storia novecentesca, spesso i testimoni non fanno bon ménage con gli studiosi. Spesso la soggettività della memoria confligge con la realtà della storia. Nel caso della Resistenza italiana, è successo quasi il contrario. Da Roberto Battaglia a Guido Quazza, da Giorgio Vaccarino a Giorgio Bocca, da Ermanno Gorrieri a Claudio Pavone, gli studiosi più acuti e profondi della nostra vicenda resistenziale sono stati uomini che di tale vicenda – quando avevano vent’anni o giù di lì – erano stati testimoni o addirittura protagonisti. Un segnale, evidentemente, della loro capacità di lavoro e della loro lucidità di giudizio. Ma anche un segnale del ritardo, metodologico e ideologico, accumulato dalla generazione di storici a loro immediatamente successiva.
L’altro grande vantaggio di Pavone, rispetto agli storici più blasonati della Prima Repubblica, è consistito nell’avere trascorso in archivio una larga parte della sua vita professionale. All’insegnamento universitario, Pavone non sarebbe arrivato prima di compiere sessant’anni; e occupando, a Pisa, una posizione accademicamente defilata. Prima, per decenni, il suo ambiente di studio era stato quello romano dell’Archivio centrale dello Stato. Dove il laureato in giurisprudenza si era costruito un profilo di studioso altrimenti solido, in confronto a quello dei contemporaneisti italiani allora più in voga. Anziché contentarsi di lavorare dalla biblioteca, grazie al cotto e mangiato di fonti per lo più giornalistiche, Pavone aveva appreso il mestiere alla scuola severa della paleografia e della diplomatica. Per lui – come per tutti i maggiori medievisti e modernisti – non poteva darsi storia senza documento d’archivio.
Il gran libro di Pavone, Una guerra civile , poggia su fondamenta archivistiche eccezionalmente ampie e profonde. Al tempo stesso, vive di un equilibrio sapiente tra le fonti d’epoca e le fonti di memoria. Poiché non è vietato allo storico di fare ricorso alla memorialistica, per ricostruire l’una o l’altra vicenda del passato. E tanto più nel caso della storia della Resistenza: la storia cioè di un movimento clandestino, che non aveva alcun interesse – fra soffiate delle spie e retate della Wehrmacht – a disseminare tracce scritte a uso degli storici a venire. L’importante, quando si lavora con le fonti di memoria, è tenerne a mente lo statuto. In modo da non confondere il prima e il dopo, l’oggettivo e il soggettivo, il materiale e l’immaginario.
Nel sottotitolo di Una guerra civile , quello che apparentemente è un dettaglio – una preposizione articolata – dice molto del libro e del suo autore. «Saggio storico sulla moralità nella Resistenza»: nella Resistenza, non della Resistenza. A significare che, secondo l’ex partigiano Claudio Pavone, la Resistenza non era stata morale per definizione. Che durante i venti mesi dell’occupazione tedesca e della guerra civile, la moralità dell’azione partigiana era stata una conquista, piuttosto che una prerogativa. Era risultata da un percorso, piuttosto che da chissà quale garanzia a priori. Gli eroi della Resistenza non erano nati belli e fatti, come la mitologica Minerva dalla testa di Giove. Si erano costruiti nel tempo, attraverso esperienze ed errori. Come tutti i comuni mortali.