Il Sole Domenica 4.12.16
Né con Roma né con Lutero
L’amore
di Erasmo per Cicerone non gli impedì di stilare un pamphlet contro la
retorica della curia con la quale fu persino più duro dei protestanti
di Massimo Firpo
Il
dialogo Ciceronianus di Erasmo fu pubblicato a Basilea nel marzo del
1528; l’anno dopo ne comparvero altre due edizioni e una quarta nel ’30.
Un immediato successo, come in genere accadeva a tutti gli scritti del
grande umanista olandese, maestro delle bonae litterae in ogni angolo
d’Europa. Lo era da tempo, del resto, almeno dalla pubblicazione degli
Adagia (1500), la raccolta di proverbi antichi più volte arricchita e
ristampata, come molti dei suoi scritti, cui erano poi seguiti l’
Enchridion militis christiani (1503), l’E logio della Follia (1511), il
testo critico del nuovo Testamento in greco e l’ Institutio principis
christiani (1516), i Colloquia (1517), la Querela pacis (1521), i
commenti biblici, le monumentali edizioni dei Padri della Chiesa, le
antologie di lettere, per citare solo le opere più celebri. Tutto era
cambiato però negli ultimi dieci anni, dopo che nel 1517 Martin Lutero
aveva affisso sulla porta del castello di Wittenberg le sue 95 tesi.
L’unità della respublica christiana, vale a dire lo stesso spazio
fisico, storico, culturale e religioso del magistero erasmiano, si
veniva infatti disgregando in un crescendo di polemiche, di
controversie, di odii inestinguibili, di condanne, di persecuzioni. Lo
stesso Erasmo aveva finito con il trovarsi nell’occhio del ciclone,
accusato dagli uni di essere stato la gallina che aveva deposto le uova
poi covate da Lutero, e dagli altri di aver vilmente rinunciato al suo
impegno per la riforma della Chiesa e di essersi alla fin fine schierato
a fianco di quei monaci corrotti, di quei frati ignoranti, di quel
papato simoniaco che in passato non aveva perso occasione di mettere
alla gogna.
In realtà, dopo la comparsa in scena di quel monaco
sassone sempre più irruento e tonante, lontanissimo dal suo modo di
essere e di pensare, Erasmo aveva taciuto, aveva lasciato correre, aveva
fatto finta di non vedere, consapevole che contribuire a spegnerne gli
ardori avrebbe anche comportato la fine di ogni speranza di riforma
della Chiesa. Per questo non aveva preso posizione quando Lutero aveva
pubblicato i suoi grandi trattati del 1520, anche quando aveva
denunciato nel pontefice di Roma la bestia dell’Apocalisse, né quando
aveva dato alle fiamme la bolla di condanna di Leone X e il Corpus iuris
canonici nel ’21, né quando – sempre in quell’anno – aveva rifiutato di
piegarsi e ritrattare le sue dottrine di fronte a Carlo V. Aveva
aspettato sino al ’24, senza intervenire sulle questioni che più
infervoravano gli animi da ambo le parti, sulle indulgenze, sul ruolo
dei preti, sul purgatorio, sui sacramenti. Per sfidare Lutero aveva
scelto la questione tutta umanistica del libero arbitrio, e con essa
della dignità dell’uomo: una questione cruciale che investiva il modo
stesso di essere cristiani, contrapponendo a una fede tutta teologica,
fondata sulla parola di Dio e i suoi insondabili misteri, una fede tutta
morale, fondata invece sulla capacità del vangelo di ispirare carità,
giustizia, concordia. Fu Lutero stesso, che pure detestava con tutte le
sue forze quel raffinato letterato, incapace di capire e accettare lo
scandalo della fede, a riconoscerne la grandezza, dandogli atto di
essere stato il solo capace di morderlo alla gola.
Tutto ciò,
naturalmente resta tra le righe del Ciceronianus, ma ne costituisce al
tempo stesso una cornice imprescindibile. Contribuisce cioè a far capire
come Erasmo, grande ammiratore di Cicerone, decidesse poi di prenderne
le distanze. Non perché avesse cambiato idea, tutt’altro, anzi proprio
per essere fedele al modello autentico di Cicerone, alla sua capacità di
mettere l’eloquenza al servizio degli obiettivi che perseguiva, e
dunque di adattarsi alle circostanze, di mirare all’utile e
all’efficace, tutt’altro che bloccata in un algido purismo che ne
tradiva profondamente lo spirito. Non era Cicerone, insomma, l’obiettivo
polemico di questo libro, ma i ciceroniani, e in particolare i
letterati romani che quello stile avevano eretto a modello esclusivo non
solo delle esercitazioni retoriche con cui celebravano la Roma papale
quale erede della Roma imperiale e la esaltavano come Geusalemme eterna
in cui si era realizzata una sorta di suprema sintesi tra civiltà
classica e cristianesimo di cui essi erano i rappresentanti e i
sacerdoti. Una cultura sterile e vacua, tanto compiaciuta di se stessa
da ignorare la torbida decadenza in capite et in membris che infettava
la Chiesa a partire dalla curia papale, insensibile a ogni proposta di
rinnovamento e sorda alle istanze religiose che trovavano in Erasmo e
Lutero due pur diversi rappresentanti. Una cultura tutta letteraria,
ridotta a pedissequa imitazione e quindi incapace di rinnovamento,
intrisa di neopaganesimo, che presumeva di aver raggiunto il culmine nel
riprodurre nella lingua di Cicerone la stessa dottrina cristiana, i
suoi misteri, le sue liturgie, dando vita a quella che è stata definita
come una «teologia retorica», intessuta di citazioni classiche, come nel
Liber sententiarum di Paolo Cortesi (1504), per esempio, in cui i santi
diventavano heroes, Tommaso d’Aquino l’Apollo christianorum, i
sacerdoti flamines, l’inferno Orcus e così via.
Primo volume di
una collana Corona Patrum Erasmiana (di cui altri sono imminenti)
promossa dal Centro europeo di studi umanistici «Erasmo da Rotterdam»,
questa eccellente traduzione con testo latino a fronte e un dotto
commento in apparato si apre con un’introduzione che contestualizza
finemente lo scritto erasmiano sia negli sviluppi del suo pensiero e del
suo modo di intendere valore e significato della cultura sia nella
specifica tradizione umanistica cui faceva riferimento (Ermolao Barbaro,
Lorenzo Valla, Angelo Poliziano, Giovan Francesco Pico) e quindi delle
polemiche che investivano il presente. Se proprio in quegli anni il
grande successo della stampa, l’affermarsi degli Stati assoluti, la
frattura religiosa in atto contribuivano all’inarrestabile affermazione
delle lingue volgari, Erasmo rimaneva fedele a quel latino che era e
restava lo strumento linguistico di una comunicazione europea; ma lungi
dall’imbalsamarlo in un vacuo perfezionismo formale, lo riproponeva come
una lingua viva e vitale, talora anche frettolosa proprio in quanto
funzionale anzitutto ai contenuti che trasmetteva, ai principi che
difendeva, agli scopi che si proponeva, all’azione concreta che
stimolava nei termini propriamente politici di una appassionata
militanza culturale e religiosa. Di qui i continui interventi di Erasmo
sulle nuove edizioni dei suoi scritti, per migliorarli e correggerli
laddove necessario, e soprattutto per riproporne un continuo
aggiornamento in funzione delle esigenze del presente.
Per capire
il Ciceronianus, del resto, occorre tener presente che esso fu scritto
all’indomani del terribile sacco di Roma del 1527, quando i lanzi
imperiali avevano fatto scempio della città papale in un indicibile
crescendo di violenze, saccheggi, sopraffazioni, atrocità d’ogni genere.
Segnò la fine della grande stagione rinascimentale dei pontificati
borgiani, rovereschi e medicei, delle Stanze di Raffaello e della
Sistina di Michelangelo. L’Europa tutta ne restò sconvolta, e dovunque
si volle vedere in quella tragedia una giusta punizione di Dio per la
corruzione della curia papale. Ma tra i letterati si diffuse anche lo
sgomento per i danni incalcolabili che quei soldatacci avrebbero potuto
arrecare all’ineguagliabile patrimonio culturale di cui Roma era erede.
Lo stesso braccio destro di Lutero a Wittenberg, Filippo Melantone, si
disse preoccupatissimo per le biblioteche romane, custodi di un sapere e
di una civiltà cui la Germania stessa era debitrice. Al contrario il
mite Erasmo da Rotterdam, anziché deprecare quanto era accaduto volle
pubblicare quel Ciceronianus che condannava senza appello i letterati
romani, «più ricchi di letteratura che di pietà». Non proprio un Erasmo
moderato, insomma, un Erasmo convinto apologeta del cattolicesimo
romano, un Erasmo opportunista e infingardo, «anguilla», «vir duplex»,
come lo definì Lutero e come ancora molti lo presentano; ma un Erasmo
tanto coraggioso da combattere le sue battaglie culturali e religiose
sull’uno e sull’altro fronte in difesa di un cristianesimo serio,
operoso, moralmente responsabile, avverso al fasto mondanizzato della
gerarchia ecclesiastica così come alle inutili dispute teologiche, utili
solo a creare divisioni e conflitti. «Summa nostrae religionis est pax
et unanimitas», scriveva nel ’23. Si capisce benissimo, quindi, perché i
luterani lo detestassero cordialmente e i cattolici si affrettassero a
inserire nell’Indice dei libri proibiti i suoi Opera omnia.
Desiderio
Erasmo da Rotterdam, Il Ciceroniano , a cura di Francesco Bausi e
Davide Canfora, con la collaborazione di Elisa Tinelli, Loescher,
Torino, pagg. 394