domenica 4 dicembre 2016

Corriere La Lettura 4.12.16
La Russia post-mafiosa
Nel regime di Putin anche i criminali sono condannati a essere perdenti: un governo forte non ammette poteri alternativi.
Le organizzazioni malavitose fioriscono nelle democrazie. Non qui
Un viaggio, con molte sorprese, tra Mosca e Perm attraverso le tombe dei grandi boss degli anni Novanta
di Federico Varese

3 novembre 2016
All’inizio di novembre sono tornato in Russia. Dal 1989 al 1998 ho frequentato il Paese della perestrojka e del caos post-sovietico con una certa assiduità e ho vissuto quasi un anno nella città di Perm, nella regione degli Urali. Poi, più nulla. Ho continuato a seguire la trasformazione della Russia sotto Putin, ma non ci ho più messo piede. Oggi mi ritrovo su un aereo con destinazione Mosca. Il mio scopo è visitare le tombe di alcune delle persone che ho conosciuto in quegli anni.
Mosca si distingue chiaramente dal cielo. La città è costituita da cerchi concentrici e più ti avvicini al suo cuore, più intense sono le luci, la vita stessa diventa più pulsante, urgente. Questa è allo stesso tempo la capitale politica, finanziaria e culturale di un Paese di 143 milioni di abitanti. Sbarco a Domodedovo, un aeroporto modernissimo che non ha nulla da invidiare a Francoforte o Milano. Un rapidissimo servizio di treni mi porta in centro in meno di un’ora. Quando il giorno dopo il mio arrivo esco sulla Tverskaya, la strada che dal Cremlino conduce a San Pietroburgo, una folla ben ordinata sta marciando verso il centro. Mi unisco a loro. È una manifestazione molto diversa da quella cui presi parte nell’agosto del 1991, quando mi ritrovai in una Mosca che si stava risvegliando dall’incubo del colpo di Stato. In quel lontano agosto di 25 anni fa, i moscoviti guidati da Eltsin manifestavano per la difesa della democrazia contro i golpisti. All’epoca il Paese voleva guardare verso Occidente. Il 4 novembre 2016 si sente assediato e celebra il Giorno dell’Unità, una festa creata da Putin nel 2005 per commemorare la vittoria contro l’esercito polacco del 1612. I manifestanti sono ben vestiti, ordinati, entusiasti. Il cinquantenne che marcia di fianco a me indossa un piumino Moncler e porta una bandiera con l’effige di San Giorgio. Non riesco a conversare: urla a squarciagola «Unità! Patria! Putin!»; poi scompare, inghiottito dalla marea umana oppure imboscato in un bar. Per un momento mi sento parte di un plebiscito popolare a favore della nuova Russia. Il corteo si ferma non lontano dalle mura del Cremlino, dove il presidente inaugura un gigantesco monumento dedicato al principe Vladimir di Kiev, il monarca cristiano del primo nucleo statuale russo. A una rispettosa distanza dall’evento principale è stato montato un palco per un concerto di Stato. Ci sono non meno di ottantamila persone.
Nonostante il mio entusiasmo, non me la sento di ascoltare musica pop patriottica. Lascio la piazza e mi avvio verso un cimitero. Sono alla ricerca di quelle enormi tombe di mafiosi russi che secondo diversi racconti occidentali riempiono i cimiteri di Mosca, il simbolo di come la mafia si fosse impadronita di tutto, compreso il sacro. E così mi dirigo verso Vagan’kovskoye, a poche fermate di metrò dal mio albergo, nel Nord della capitale. Ben presto scopro che vi è una gerarchia della morte. Il cimitero più ambito è il sottomura del Cremlino, dove sono sepolti gli eroi della rivoluzione e diversi leader del partito. Viene poi Novodevicy, che si trova dietro il convento che porta lo stesso nome. Qui riposano Anton Cechov, Raissa Gorbaciova e Boris Eltsin. Il terzo per importanza è Vagan’kovskoye, un’ultima dimora terrena prestigiosa ma appartata, dove si trovano celebrità minori. Non lontano dall’ingresso c’è un mio idolo giovanile: il Bob Dylan russo Vladimir Vysotsky.
I cimiteri sono dei labirinti, solo le ricerche che ho compiuto prima del viaggio mi permettono di dirigermi senza esitazione verso il lotto 26, dove mi trovo faccia a faccia con un Vjaceslav Ivan’kov a grandezza naturale. Ivan’kov fu uno dei mafiosi più noti degli anni Novanta: per un periodo attivo a New York, dove controllava vari racket a Brighton Beach, arrivò a essere descritto dalla stampa americana come il simbolo della piovra mondiale. Al suo ritorno in Russia nei primi anni Duemila, Ivan’kov cercò di fare da paciere tra due fazioni della mafia russa, ma non ebbe grande successo e venne ucciso da un cecchino mentre usciva da un ristorante nel 2009. È sepolto di fianco alla madre. Il monumento non è più imponente di altri che ho intravisto nel mio tour delle rappresentazioni della morte in Russia. Ammiragli, piloti, artisti e cantanti lo battono. Ivan’kov è seduto con le mani in tasca, lo sguardo stanco e gli occhi cerchiati, si intravede una catenina d’oro che va a nascondersi nella camicia semiaperta. Dietro la sua statua ci sono due stele di marmo nero. Una riproduce una icona russa tradizionale, la Madonna con Bambino , che simboleggia la religiosità del defunto (Ivan’kov era famoso per la sua collezione di icone antiche). Sposto la neve che è già caduta abbondante e vedo l’immagine della seconda stele: le sbarre di una cella che affacciano su un paesaggio vuoto, senza nulla da ammirare. Mi aspettavo un monumento kitsch e invece lo trovo piuttosto sobrio, quasi toccante. L’autore è uno scultore già famoso in epoca sovietica, Aleksandr Rukavishnikov, a cui dobbiamo monumenti funebri di zar e leader politici, ma anche quello di Mikhail Bulgakov che si trova a Montreux, in Svizzera.
La tomba di Ivan’kov è «sovietica», del tutto diversa da quelle tradizionali ortodosse, che sono di legno o di marmo bianco e non riproducono l’immagine del defunto, oppure si limitano ad avere il volto in una piccola effige ovale. Gli eroi dell’Urss sono ritratti invece a figura intera, vicino agli oggetti della loro professione, come i carri armati, gli aerei e gli strumenti musicali. I Soviet inaugurarono l’epoca dell’individualismo e del gigantismo, anche se la morale comunista avrebbe dovuto privilegiare lo spirito collettivo. A un certo punto della storia russa, il mondo criminale è emerso dalle tenebre e ha adottato gli stessi modelli.
Mentre cerco di ritrovare i posti che conoscevo vent’anni fa, mi intrattengo a pranzo e a cena con un variegato assortimento di diplomatici, imprenditori, piccoli oligarchi e italiani-moscoviti. Tutti mi ripetono che nella nuova Russia la politica conta più di tutto. Oggi il presidente impartisce ordini ai grossi imprenditori e nessuno si sogna di disobbedire. Ma questo è un sistema politico complesso, con poteri in competizione tra loro, anche se non attraverso le urne. Un uomo d’affari che produce macchinari dice che non paga tangenti, ma vende tutto a un agente, il quale a sua volta piazza la merce a committenti statali. «Come faccia, non voglio saperlo».
Secondo dati ufficiali (2012), la corruzione costa circa un terzo del bilancio statale. D’altra parte, i racket mafiosi degli anni Novanta sono pressoché scomparsi, si limitano ad avere un ruolo nel mercato della droga e della prostituzione. Ai mafiosi vengono preferiti sicari del Caucaso per portare a termine gli omicidi più efferati, ma i mandanti non vengono mai scoperti.
La maggior parte delle conversazioni finiscono così: «Se eviti la politica, la vita a Mosca è stupenda». Le tasse sul reddito sono al 13%, il sistema sanitario non mi sembra peggiore di quello di tanti altri Paesi e dovunque mi giro vedo nuovi palazzi in una città pulita ed efficiente.
Se potessi, mangerei ogni sera alla Pizzeria Bontempi oppure al ristorante Bolshoi. Il servizio è ottimo e la compagnia squisita.
Di ritorno in hotel, la lettura delle notizie della settimana fa affiorare una realtà diversa. La prima persona ad essere stata condannata per «violazione ripetuta della normativa sulle manifestazioni politiche» è vittima di abusi. Tramite la madre, il giovane attivista è riuscito a far trapelare una lettera dal carcere IK-7, che si trova nella regione sub-artica della Karelia: «Se continuate a torturarmi, picchiarmi e stuprarmi, non vivrò un’altra settimana». Anche i libri fanno paura. La direttrice del Dipartimento di letteratura ucraina della Biblioteca statale di Mosca è stata accusata di aver promosso l’odio etnico per aver catalogato e messo a disposizione dei lettori volumi di autori ucraini nazionalisti. Lei si difende dicendo di aver fatto solo il suo dovere. «Non potevo gettare al macero i libri della biblioteca, sono proprietà dello Stato». Da dodici mesi è agli arresti domiciliari e rischia una condanna a dieci anni di prigione. Forse non è un caso se il Museo Puskin ha dedicato una straordinaria mostra all’artista veneziano Giovan Battista Piranesi (1720-1778): le sue stampe dedicate alle prigioni danno le vertigini, raffigurano gabbie di ferro surreali dalle proporzioni falsate, ma capaci di cogliere l’orrore di un mondo carcerario parallelo, fatto di dolore vero e costante.
7 novembre 2016
Non si può conoscere la Russia visitando solo Mosca. Quando negli anni Novanta decisi di andare a vivere a Perm, portai con me una copia del Dottor Živago , il romanzo pubblicato nel 1957 da Boris Pasternak che racconta la storia d’amore tra Yuri e Lara al tempo della rivoluzione. La città di Yuryatin descritta nel libro è basata su Perm, dove Pasternak visse a lungo. Negli anni Novanta, il miglior modo per raggiungerla era col treno Kama, che partiva ogni pomeriggio dalla stazione Yaroslavsky e impiegava ventiquattro ore. Pasternak descrive lo stesso viaggio. Nel 2016 ho preso un comodissimo volo, parte della Star Alliance, prenotato direttamente da Londra. Arrivo in due ore.
Perm è quasi irriconoscibile: le strade non hanno buche, ci sono due cinema I-Max, decine di palazzi moderni con arredamenti italiani, i supermercati pieni di prodotti europei nonostante le (inutili) sanzioni commerciali. Trovo il mascarpone Galbani, le olive Barilla e il Chianti Riserva. Quasi ovunque, UniCredit ha installato dei bancomat in diverse lingue, tra cui l’italiano, e si possono ritirare euro, dollari o rubli. Passo diverse ora al nuovo Café Paris, in centro.
La crisi ha colpito alcune banche cittadine. L’economia di Perm è dominata dalla compagnia petrolifera Lukoil, e il crollo del prezzo del greggio si è fatto sentire. Ma la vita lontano dalla «ferocia della capitale» (parole di Pasternak) procede quasi indisturbata. Scopro che i racket che avevo studiato negli anni Novanta sono spariti. I piccoli imprenditori non sembrano pagare il pizzo. I più grandi hanno un protettore nella Duma locale. Al mercato ortofrutticolo, i venditori tagiki e kazaki sono ospitati in comodi padiglioni riscaldati e ben illuminati. Ai miei tempi battagliavano con i gangster russi all’aperto e al freddo.
Sono giunto a Perm per scovare un’altra tomba, quella del boss della mafia locale, Nikolai Zykov. Nel libro che sto scrivendo racconto dei nostri incontri, di come in un ristorante che aveva ancora l’odore dell’Unione Sovietica egli mi spiegasse paziente i riti di una setta segreta a cui apparteneva, i cosiddetti «ladri nella legge». Oggi quel ristorante è metà discoteca alla moda e metà pub inglese. Il buttafuori non ha mai sentito parlare di Zykov.
Il cimitero di Perm è fuori città e una anima buona mi ci accompagna in jeep. La strada è coperta di neve e servono le catene. Quando arriviamo, mi trovo davanti una figura a grandezza naturale, su una stele di marmo nero. Zykov, piccolo di statura, ha l’aria irritata, forse è poco felice di essere l’oggetto di sguardi indiscreti. Anche lui ha le mani in tasca e indossa lo stesso golf che porto io per proteggermi dal freddo siberiano. L’immagine è sbiadita, ma dei fiori rossi freschi sbucano dalla neve. Qualcuno ancora oggi gli rende omaggio. Su un tavolino di marmo vedo un bicchiere. La tradizione vuole che si sparga della vodka sulla tomba e poi si brindi alla salute del defunto. Non lontano intravedo le stele degli altri membri della sua gang, tutti uccisi nelle guerre di mafia degli anni Novanta.
Di fronte a una tomba si è portati a distillare alcune frasi memorabili per un personalissimo necrologio che nessuno mai leggerà. La Russia è entrata in una nuova fase. La voglia di lasciarsi alle spalle gli anni dell’Urss e di abbracciare l’Occidente è finita. Abbiamo tutti perso un’opportunità storica ed è difficile dare la colpa a un solo uomo.
Nella Russia autoritaria di Putin individui come Zykov o Ivan’kov sono destinati ad essere perdenti, piccole pedine in un gioco che non controllano più. Paradossalmente, le mafie prosperano nelle democrazie, commerciano in voti e assicurano appalti. La sfida per noi consiste nel combattere il crimine organizzato senza perdere l’anima. Ma in un mondo post-mafioso, dove un regime forte distrugge ogni fonte di potere alternativa, anche i mafiosi finiscono. Lo Stato fagocita tutto. I regimi autoritari non ammettono fonti alternative di potere. Si viene comprati o eliminati. I morti appartengono al passato e presto non saranno che un ricordo sbiadito. Noi abbiamo la memoria corta e per questo siamo portati ad essere generosi, a dimenticare le incomprensioni e i conflitti del tempo andato. Non voglio certo dimenticare il dolore causato da Zykov e Ivan’kov, ma so che una sofferenza diversa aspetta coloro che continuano a vivere.