Il Sole 9.12.16
Siria, l’ipotesi di una spartizione
Il Paese, al pari di Iraq e Libia, non tornerà unito
Continuerà la presenza di truppe straniere
La conquista di Aleppo non determinerà la fine della guerra civile
di Alberto Negri
Gli
assedi di Aleppo e della Sirte sono una svolta in due guerre
geograficamente lontane ma accomunate da errori di calcolo simili che
hanno portato alla disgregazione di interi stati. Quando in
un’intervista a Al Watan Bashar Assad dice che la vittoria ad Aleppo -
dove controlla l’80% della città - è vicina ma non lo è la fine della
guerra sa perfettamente che con lui o senza di lui ci sarà comunque una
ex Siria come del resto c’è già anche un’ex Libia. Ed è probabile che
dopo un’eventuale vittoria sull’Isis, nello stesso Iraq verrà il momento
di decidere una sorta di spartizione che qui significa, come in Libia,
anche quella di ingenti risorse petrolifere. Nessuno di questi Paesi
probabilmente risorgerà come uno Stato unitario se non in una sorta di
fiction sulla carta geografica ma continuerà la presenza, oltre che
delle milizie locali, di truppe e basi straniere.
Se anche Trump e
Putin si mettessero d’accordo, è un’illusione che potranno chiudere la
partita mediorientale con un ritiro in buon ordine: russi e americani
resteranno in Siria e in Iraq, in un modo o nell’altro. Si possono
fidare gli Stati Uniti delle forze armate irachene che due anni fa si
sono liquefatte davanti all’avanzata del Califfato? E i russi non
potranno certo abbandonare le basi siriane, il bottino strategico del
loro impegno militare.
In cinque anni il mondo è cambiato ma non
come si pensava. Quando è cominciata una legittima rivolta popolare nei
confronti del regime di Assad era il 15 marzo del 2011: Ben Alì era
fuggito in gennaio dalla Tunisia e Mubarak si era già dimesso. Il 16
febbraio divampava la protesta di Bengasi e il 19 marzo sarebbero
cominciati i bombardamenti francesi, inglesi e americani contro il
Colonnello libico. In quel momento sembrava che il vento delle rivolte
avrebbe travolto il vecchio mondo dei raìs. Bastava una spinta, si
pensava, e l’era dei dinosauri arabi sarebbe finita per aprire una nuova
epoca: lo stesso errore che avevano già fatto gli Usa attaccando l’Iraq
di Saddam Hussein nel 2003.
Si guardava molto alle piazze arabe e
assai meno alla geopolitica. Dai cambiamenti di quella primavera sono
sopravvissute come realtà statuali soltanto Tunisia ed Egitto ma al
Cairo nel 2013 c’è stato un sanguinoso golpe del generale Al Sisi i cui
effetti stanno ancora influendo sulla collocazione del Paese sulla scena
internazionale. Al Sisi sta svoltando le spalle ai sauditi che lo hanno
appoggiato per far fuori i Fratelli Musulmani, si è schierato con
Assad, avversato da Riad, e stringe accordi con i russi sulla Libia.
Gli
effetti a catena di quel 2011 non solo non si sono esauriti ma
dureranno anni. L’errore di calcolo più clamoroso e con effetti
strategici di lungo termine è stata la Siria. Il 6 luglio l’ambasciatore
Usa a Damasco Ford andava a passeggiare tra i ribelli di Hama, un gesto
inimmaginabile con le procedure di sicurezza adottate per i diplomatici
americani dopo l’11 settembre: era il via libera di Washington alla
guerra condotta dalla Turchia e dalle monarchie del Golfo a un alleato
storico dell’Iran. Era evidente che si trattava da subito di una guerra
per procura che avrebbe coinvolto tutta la regione in un Paese dove la
Russia teneva la sua ultima base nel Mediterraneo.
Gli Usa
volevano “guidare da dietro” un processo di rivolgimenti politici ma
quando nel settembre 2013 hanno rinunciato a bombardare Assad per le
armi chimiche, dopo la mediazione della Russia e del Papa, le potenze
sunnite hanno capito che avrebbero dovuto fare da sole. In quel momento
gli Usa hanno intaccato la loro credibilità nei confronti della Turchia e
delle monarchie del Golfo, irritate anche dalla firma il 14 luglio 2015
dall’accordo sul nucleare con l’Iran. E con l’ingresso in campo della
Russia il 30 settembre Assad è rimasto in sella.
È interessante
osservare che i peggiori nemici dell’Iran sono a volte i suoi maggiori
alleati. Nel 2001, dopo l’11 settembre, gli Usa fecero fuori l’Emirato
dei Talebani, un regime sunnita ultra-radicale, affiancato da al-Qaida,
ostile a Teheran. Nel 2003 sempre gli Stati Uniti, abbattendo Saddam
Hussein, consegnarono il Paese a un governo sciita fortemente
influenzato da Teheran. E ora nella lotta al Califfato gli iraniani si
trovano al fianco, sia pure temporaneamente, degli Usa e della Turchia.
Ma
l’errore forse più irrimediabile è stata la manipolazione in questi
conflitti dell’identità religiosa, settaria e tribale, interi popoli
hanno così perso quella nazionale e questa non ricostruisce con la
caduta di Aleppo o della Sirte.