Il Sole 9.12.16
GB, i negoziati con la Ue
Brexit, Londra corregge il tiro ma resta in stato confusionale
Il premier concede al Parlamento di «vedere» la strategia
di Leonardo Maisano
Dopo
quattro giorni di dotto discettare sulla difficile declinazione della
“prerogativa reale” governativa con il ruolo del Parlamento nella vita
democratica del Regno Unito, la Corte Suprema ha terminato la fase
dibattimentale. I giudici si riuniscono e la sentenza che sarà emessa in
un giorno da definirsi del mese di gennaio metterà fine al contrasto
fra Downing street e Westminster sul destino della Brexit. Non sulla
Brexit in sé che nessuno, con l’eccezione di Tony Blair e pochi
irriducibili, immagina revocabile, ma sulle modalità, la tempistica, le
condizioni della sua realizzazione pratica.
I supremi giudici
dovranno confermare o rigettare il verdetto dell’Alta Corte che ha
assegnato al parlamento un ruolo chiave nell’iter che procede e
accompagna l’avvio del procedimento di recesso dall’Ue. Il governo di
Theresa May lo contesta nel principio, avocando a sé stesso – in nome
della prerogativa reale – il diritto e il dovere di gestire la Brexit
nella sua trasformazione da volontà popolare a realtà storica.
In
attesa che la Suprema Corte chiarisca il conflitto istituzionale, si
chiude una settimana importante nei rapporti anglo-europei e soprattutto
interni alla vita del Regno. Il governo di Theresa May sta dando
inattese indicazioni di disponibilità al compromesso con i remainers,
allontanandosi dagli slogan più severi della hard Brexit, ripiegando su
più moderate opzioni negoziali. Gli sviluppi più significativi in questo
senso sono tre, al netto del pronunciamento dell’Alta Corte che resta,
in assoluto, l’evento più importante dal 23 giugno ad oggi. In primo
luogo il governo ha accettato – due giorni fa – di illustrare in
Parlamento i piani negoziali che intende adottare, prima di avviare la
procedura di recesso dall’Ue. Ha accettato di farlo, si obietterà, in
cambio dell’impegno dei deputati ad approvare il calendario governativo
sulla pratica di separazione. È vero, ma resta significativa la
decisione di Downing Street di mostrare un poco le carte come preteso
dal Labour e da molti conservatori “eurofili”. Le mostrerà, beninteso,
fra mille caveat, per non danneggiare la tattica negoziale, ma tanta
cautela è inevitabile e non diminuisce affatto il significato della
mossa che il governo May ha accettato di subire riconoscendo al
parlamento un ruolo specifico. Sarà la Corte Suprema a stabilire se quel
ruolo debba andare molto più in là con votazioni e misure specifiche
varate da Westminster a cui il governo dovrà attenersi.
In attesa
di allora Theresa May ha già rinculato dalla linea della fermezza e con
lei gli hard brexiters, da David Davis a Boris Johnson, protagonisti
degli altri due sviluppi del dedalo Brexit che riteniamo importanti.
Entrambi, d’improvviso, vanno dando segni di relativo pentimento. È
stato Davis, infatti, ad ammettere che «forme di pagamento alle
istituzioni Ue potrebbero essere necessarie» per garantire a Londra i
benefici del mercato interno. Un’indicazione che ha rilanciato l’idea
della disponibilità di Londra a considerare, come ipotesi estrema, il
modello norvegese, l’adesione cioè allo spazio economico europeo,
nonostante il problema, che resterebbe irrisolto, dell’immigrazione
intra Ue. Sarà un caso, ma mentre David Davis ipotizzava assegni in
pound per Bruxelles il ministro degli esteri Boris Johnson si lasciava
scappare di «non essere contrario alla libera circolazione dei
lavoratori». Non vale la sua successiva ritrattazione, né vale la
puntualizzazione di aver parlato «a titolo personale». Un vezzo,
quest’ultimo, che va di moda dalle parti del Foreign Office. S’è saputo
ieri che qualche giorno fa, a Roma, Boris Johnson ha sparato - «a titolo
personale» - una bordata contro l’Arabia Saudita, accusata di essere
impegnata in una “proxy war” in Medio oriente. Tesi magari
condivisibile, ma certamente non condivisa da Theresa May che lo ha
subito richiamato all’ordine. Un ministro degli esteri in carica - ex
giornalista e straordinario giocoliere della comunicazione - non può
parlare tanto spesso «a titolo personale», in divergenza con la linea
del suo governo. Più che un incidente è un’eccentricità, volendo essere
magnanimi.
A sei mesi scarsi dal referendum , Londra, aggiusta
pertanto la mira sulla Brexit, ma il target resta ancora invisibile.
Qual è l’obbiettivo condiviso dal governo di Londra? Le voci sono
dissonanti e la strategia comune ancora latita. Theresa May ha
sostituito alla retorica dello slogan “Brexit significa Brexit”, quella,
appena coniata, di una «Brexit bianca rossa e blu» come l’Union Jack.
Ancora parole e ancora nebbia. Tatticismi ? No, solo tanta preoccupante
confusione sulla via da battere per lasciare l’Unione senza pagare un
prezzo economicamente insostenibile.