Il Sole 9.12.16
Se Trump «regala» il Tpp alla Cina
di Adriana Castagnoli
Che
cosa sta accadendo al commercio internazionale? Benché nel mondo
occidentale ci sia un diffuso malcontento e risentimento tanto nei
confronti della globalizzazione quanto dell’asimmetrico capitalismo che
si pensa essa abbia cagionato, sta di fatto che il commercio mondiale è
fermo. Fattori strutturali come la mancanza di nuovi, efficaci accordi
commerciali e la contrazione delle catene di fornitura globali, secondo
il Fondo monetario internazionale (Fmi), sono fra le principali ragioni
di questo rallentamento, gravato anche da una generale debolezza
economica e da scarsi investimenti. Oltretutto, il commercio globale
rischia di restare fiacco a lungo poiché la stazionarietà degli scambi è
anche un effetto cumulativo delle misure e politiche protezionistiche
adottate da molti Stati del G20 per colpire quelli concorrenti, come
dimostra un recente rapporto del Trade global alert. In un mondo dove il
commercio non cresce più, i governi possono giungere alla conclusione
che assicurarsi più larghe quote di mercato richiede, in definitiva, una
politica di stretto contenimento delle industrie straniere, riesumando
così anacronistiche pratiche mercantilistiche.
Il fatto è che la
rapida e prorompente emersione della Cina ha sconvolto economie e
società già provate dai cambiamenti tecnologici e dalla crisi
finanziaria. Come Pechino ha favorito una vigorosa crescita globale
durante la sua fase espansiva, adesso la sua lenta transizione
riformatrice da un modello di sviluppo export led a uno più rivolto al
mercato interno e ai consumi – pur positiva, in prospettiva, per
l’economia mondiale – ha giocato un ruolo significativo nel
rallentamento dell’export mondiale. Nel 2014-15 il volume delle
esportazioni globali è diminuito mediamente del 2% rispetto al periodo
2011-13; e del 5% rispetto al 2000-2010.
La Cina è stata per anni
una delle principali destinazioni dell’export mondiale di materie prime e
componenti. Ma attualmente la “fabbrica del mondo” sta concentrando
anche una più ampia quota delle catene di fornitura globali con effetti
dirompenti sui mercati esteri. L’export verso la Cina, cresciuto
costantemente dagli anni 90, lo scorso anno è crollato del 14%; e del
15% è diminuito il valore di componenti e materiali importati da Pechino
per la produzione dei suoi beni finali.
Per ora le economie più
colpite sono quelle emergenti dell’Asia (Hong Kong, Corea del Sud,
Indonesia, Filippine, Thailandia, Singapore); altrettanto importanti i
contraccolpi per i Paesi esportatori di commodity come Australia, Sud
Africa, Cile e Brasile; ma vi sono conseguenze anche per le economie
avanzate più esposte al settore manifatturiero di Pechino. Infatti, la
spinta a usare beni locali per la produzione manifatturiera cinese si
sta diffondendo anche all’high-tech; e ciò contribuisce a rallentare la
domanda estera e la crescita globale.
Il governo cinese ha
annunciato lo scorso anno un piano finalizzato a portare il contenuto
nazionale di componenti e materiali strategici al 40% entro il 2020 e al
70% entro il 2025. Per questo ha investito in R&S il 2,1% del
Pil e promette di investire ancor di più nell’innovazione tecnologica.
Biotecnologie, aerospazio e altre esportazioni high–tech in Cina sono
diminuite del 5% nei primi 9 mesi di quest’anno. E nel comparto chimico a
più alto valore aggiunto l’import dagli Stati Uniti è crollato dell’8%.
I produttori chimici cinesi, mossi anche dalla crisi, hanno accelerato
la loro spinta verso le aree produttive di alta gamma con l’intento di
cacciare i produttori stranieri (americani e tedeschi, innanzitutto).
L’impatto della transizione cinese, tanto più se la domanda debole
diviene permanente, secondo l’Fmi, richiederà aggiustamenti strutturali
da parte dei Paesi più colpiti dai suoi effetti con interventi fiscali
mirati a mettere a punto anche nuovi modelli di crescita.
Tuttavia,
nello scenario internazionale un ambiente meno dinamico degli scambi
potrebbe incrementare un ulteriore ricorso a pratiche protezionistiche.
Ovvero a misure di carattere isolazionista che potrebbero risultare di
detrimento al commercio per lungo tempo. Di fatto, agevolare la
transizione cinese non in termini compiacenti, ma con seri accordi di
scambio regionali e globali potrebbe, almeno nel medio periodo, aiutare a
riequilibrare la sua economia e quella mondiale.
Invece,
cancellare il Tpp (Trans-Pacific Partnership), come ha annunciato il
presidente eletto Donald Trump, può essere uno dei più grandi regali che
Washington fa all’attuale dirigenza cinese. Perché il Tpp, seppur
controverso per molti aspetti, è stato sottoscritto con la regia
americana da 11 Paesi del Pacifico che appaiono intenzionati ad andare
avanti con o senza gli Usa. Così, il ritorno ad accordi bilaterali,
prospettato da Trump, potrebbe finire per dare più credito a una
leadership cinese risoluta a fissare nuove regole internazionali, a
cominciare dalla Regional comprehensive partnership.