mercoledì 7 dicembre 2016

Il Sole 7.12.16
Ma l’Europa si svegli e dia le risposte che servono
di Adriana Cerretelli

Il 4 dicembre 2016 in Europa sarà ricordato come il giorno del doppio salto mortale con imprevisto ma duplice atterraggio morbido. L’Austria, alla fine, non ha eletto il primo presidente della Repubblica di estrema destra: per l’Unione sarebbe stata una première del dopoguerra. E l’Italia non ha vissuto il temuto lunedì nero in Borsa e sui mercati dopo la sonora bocciatura referendaria della riforma costituzionale e le dimissioni di Matteo Renzi. Al contrario, l’intero Eurogruppo, compreso il tedesco Wolfgang Schauble, ha espresso fiducia nella solidità del Paese, delle sue istituzioni e della sua economia come nella sua capacità di superare la crisi bancaria e proseguire sulla strada delle riforme economiche. Insomma, tutti concordi nello sdrammatizzare l’incidente: nessuno può permettersi di scherzare con le sorti della terza economia dell’euro.
Dunque pericoli scampati, niente rischio di aggiungere due nuove crisi gravi al già ricco carniere di un’Europa intrappolata in troppe emergenze irrisolte? Sarebbe incauto illudersi. Sempre che non vengano anticipate, in Austria si terranno le legislative nel 2018 e per ora l’Fpo, il partito di estrema destra che ha perso le presidenziali, resta in testa nei favori del Paese. La minaccia cioè potrebbe presto riproporsi. Lo stesso vale per la benevolenza dei mercati verso l’Italia. Molto dipenderà anche da noi se la speculazione tornerà o no alla carica. Lo scudo della Bce di Mario Draghi e la lunga fase dei tassi bassi ci aiutano, e molto, ma non dureranno in eterno: nel migliore degli scenari il Qe si protrarrà fino a fine 2017 ma protrebbe anche finire prima. Anche per questo in Europa la comprensione verso l’Italia c’è, ma resta cauta.
A riprova, le parole sulla Finanziaria 2017 sono suonate lunedì a Bruxelles forti, chiare e con richiamo scritto al rispetto degli impegni presi per il graduale rientro da deficit strutturale e debito. Di misure aggiuntive, invece, si parlerà solo in primavera.
Che in giro non ci sia aria di concessioni e men che meno di solidarietà economica tra partner lo conferma del resto la bocciatura ufficiale della proposta della Commissione Ue per dare una spinta alla crescita europea investendoci 50 miliardi, lo 0,5% del Pil collettivo. Germania, Olanda e Lussemburgo, i tre Paesi ai quali si chiedeva lo sforzo, hanno risposto picche: niente obblighi, al massimo libere scelte di ciascuno, se e quando lo deciderà. Il rigore dunque continua. Se non ricade sotto le regole del patto di stabilità, la governance europea della politica economica resta nazionale.
Ma la risposta rimane ostinatamente sbagliata e prima o poi l’Europa potrebbe pagarla molto cara: perché favorisce la disunione e non la coesione interna. Facendo il gioco degli euroscettici che invece ogni volta si dice di voler combattere. Dovunque, a ogni appuntamento elettorale si conferma infatti l’assioma che lega disagi socio-economici, scarsa crescita, troppi disoccupati e flussi migratori sgovernati all’introversione della politica che si fa sempre più nazional-populista, tagliando fiato e spazi ai modelli di società, di sviluppo, di democrazia e di Europa sin qui conosciuti.
Proprio perché continua a respingere ogni tipo di mediazione, il braccio di ferro tra rigoristi e fautori della crescita ha già inflitto grossi danni all’Europa, approfondendone divisioni e risentimenti reciproci. Se non sarà quanto prima interrotto, potrebbe smontarne a poco a poco anche la stabilità democratica, bruciata dal binomio perverso sviluppo scarso-populismi abbondanti, riforme necessarie- pulsioni antisistema incontenibili.
La sconfitta di Renzi è figlia anche di questi cortocircuiti tra ansie di conservazione e paure del cambiamento. Sono sentimenti che inevitabilmente faranno sentire il loro peso anche nelle elezioni in Olanda, Francia e Germania. La lunga corsa, che si concluderà nell’autunno 2017, costringerà per un anno l’Europa in uno stato di stand-by: l’unico di cui oggi non ha bisogno. Paralizzerà l’esercizio di leadership della Germania di Angela Merkel, indebolita e condizionata dagli umori delle urne nazionali.
Altrove però la storia non si fermerà. In gennaio si insedierà alla Casa Bianca l’America di Trump, in marzo inizieranno i negoziati per il divorzio del Regno Unito dalla Ue. C’è solo da sperare che gli atterraggi morbidi di Austria e Italia durino e si ripetano un po’ dovunque. Altrimenti questa Europa, troppo ripiegata negli angusti confini nazionali e alle prese con elettorati frustrati e imprevedibili, potrebbe ritrovarsi costretta a sfoderare tutta la propria inadeguatezza. A meno che la Bce di Draghi non provveda ancora una volta a metterci una pezza.