Il Sole 1.12.16
Le reazioni contro Trump
Le proteste dei giovani e l’America ancora divisa
di Valerio Castronovo
È
troppo presto per dire se la vampata di proteste e di apprensioni, di
incredulità e di scoramento, diffusasi ai quattro angoli degli Stati
Uniti, e sfociata talora in violenti scontri di piazza con la polizia in
tenuta antisommossa, lascerà un segno tangibile e avrà un’effettiva
incidenza politica. «Not my President»: nelle scorse settimane con
questo slogan molte migliaia di giovani hanno sfilato a lungo le vie di
numerose città, dall’East alla West Coast, per contestare l’elezione di
Donald Trump alla Casa Bianca. Già cinque anni fa parecchi di loro erano
stati alla testa delle manifestazioni di protesta “Occupy Wall Street”
verificatesi a New York per denunciare il sopravvento del
finanzcapitalismo e l’aggravamento delle diseguaglianze sociali. Ma
s’era trattato di un’agitazione che aveva avuto per teatro quasi
esclusivamente la City e che, promossa per lo più da un’eterogenea
galassia di gruppi e attivisti della sinistra radicale, non era giunta a
incidere sugli orientamenti dell’opinione pubblica.
Di fatto,
bisogna risalire ai tempi della mobilitazione studentesca e giovanile,
avvenuta tra gli anni Sessanta e Settanta, a sostegno dei diritti civili
e contro la guerra del Vietnam, per imbattersi in un’ondata così
massiccia ed eclatante di veementi reazioni polemiche e di dolenti
recriminazioni come quella emersa alla ribalta contro l’ascesa alla Casa
Bianca del tycoon repubblicano, a causa di certe sue inquietanti
enunciazioni illiberali, discriminatorie e sessiste.
D’altra
parte, sebbene cinquant’anni fa, a innescare il moto di contestazione
propagatosi da Berkeley a tanti altri atenei, fosse stata una sorta di
“controcultura” della nuova generazione di figli della classe media nei
riguardi del conformismo “borghese” delle élite e delle convenzioni
tradizionali (in nome sia di istanze più personali e di modelli di
comportamento differenti da quelli in auge sia della libertà sessuale)
nonché una vigorosa avversione alla “sporca guerra” condotta in
Indocina, spintasi sino all’ostruzionismo alla leva (in nome del
pacifismo e dell’antimperialismo), è dato rilevare alcune analogie con
certi motivi ispiratori dell’irruente fiammata di proteste esplose negli
Stati Uniti all’indomani della vittoria elettorale di Trump.
Sono
infatti ricomparsi in scena, sia pur sotto altre sembianze rispetto al
passato, tanto il rifiuto perentorio di un conservatorismo dalle
tendenze oligarchiche e autoritarie, nonché da uno strisciante razzismo,
quanto la ripulsa di un’ideologia sociale improntata dalla logica del
danaro e del successo individuale. E, di conseguenza, la rivendicazione
di determinati princìpi fondamentali come l’egualitarismo, la parità di
genere, il dissenso e il pluralismo delle idee. Al punto da riportare in
campo taluni postulati espressi a suo tempo, contro il pericolo di
un’omogenizzazione livellatrice della società e di una manipolazione
dall’alto dei bisogni degli individui, da Herbert Marcuse in un’opera
come L’uomo a una dimensione che influenzò largamente il movimento
studentesco americano e divenne una sorta di Bibbia (insieme peraltro al
“libretto rosso” di Mao, a differenza di ciò che accadde negli Stati
Uniti), di una parte consistente del mondo giovanile in Europa ai tempi
convulsi e barricadieri del Sessantotto.
A giudicare dai toni più
morbidi e concilianti assunti però in seguito da Trump – rispetto a
quelli drastici e talora tracotanti da lui usati durante un’accesa
campagna elettorale, si direbbe che, al di là del linguaggio diplomatico
impostogli dai suoi nuovi compiti istituzionali –, la rivolta, con i
giovani in prima fila, ha forse esercitato un certo peso
sull’atteggiamento del neo-eletto presidente tanto da indurlo a
rivolgersi loro con un appello, di sapore paternalista, alla concordia e
all’unità nazionale.
Ciò non toglie che la società americana
appaia oggi spaccata nettamente in due e che sarà perciò un’impresa ben
ardua rimarginare una ferita così profonda e lacerante. Anche perché, se
in passato la decisione di Nixon nel gennaio 1973 di mettere fine al
conflitto in Vietnam valse a disinnescare la principale mina delle forti
tensioni interne che scuotevano il Paese, non si vede per il momento in
base a quali soluzioni politiche concrete e largamente condivisibili
Trump potrà ricucire la grave e dirompente frattura che s’è aperta fra
le diverse anime e componenti del complesso e già di per sé frammentato
universo statunitense.