Il Sole 14.12.16
Pechino, l’Europa e le strategie di Trump
È l’estero la linfa dell’economia cinese
Nessun Paese ha usato meglio le risorse arrivate da investimenti stranieri
di Rita Fatiguso
«I
cinesi stanno usando il nostro Paese come un salvadanaio», ha urlato
Donald Trump in campagna elettorale, promettendo di riportare a casa i
posti di lavoro andati perduti.
Che abbia ragione? La Cina è il
Paese che più al mondo ha beneficiato degli investimenti diretti
stranieri (Fdi), più di chiunque altro negli ultimi 35 anni. È anche il
Paese che meglio ha usato le risorse dell’Ovest per costruire le basi
del suo sviluppo, come dimostrano il Pil e i posti di lavoro prodotti.
Spezzare questo legame tra Cina e investimenti stranieri sarà un’impresa
particolarmente ardua.
Non lo dice Donald Trump, ovviamente, ma
la Hinrich Foundation di Hong Kong che si è specializzata nell’analisi
degli Fdi in Cina e, in particolare, in quella che si concentra
sull’andamento delle aziende straniere che operano in Cina,
multinazionali in testa.
La tesi della Hinrich regge anche in
presenza dell’altalena imboccata negli ultimi anni, un declino degli Fdi
solo apparente perché nel 2015 ben 120 miliardi di dollari di
investimenti diretti sono piovuti ancora e sempre sulla testa della
Cina. Ne hanno beneficiato il Pil e i posti di lavoro cinesi, e la
situazione non cambierà a breve perché il pugno di ferro di Pechino nel
tenere saldamente la sovranità sul controllo dei processi non accenna a
diminuire.
La frenata dell’economia non sta modificando gli
elementi in gioco, perché lo schema si sta ripetendo anche in nuove aree
di sviluppo, un esempio sono i grandi agglomerati urbani, da Tianjin a
Shanghai, ma soprattutto in quelle più nuove come Chongqing dove gli
investimenti stranieri sono stati utilizzati come leva per trasformare
un anonimo centro dell’Ovest in una moderna città interconnessa al resto
del mondo, basti pensare alla ferrovia che ormai la collega
direttamente a Duisburg, in Germania. Chongqing, in altri termini, è
risorta grazie ai capitali stranieri.
Michael J.Enright, che ha
collaborato alla stesura dell’ultimo report sugli Fdi intitolato
significativamente Developing China ha accettato l’invito del Sole 24
Ore ad analizzare soprattutto alcuni aspetti messi in evidenza
dall’avvento di Donald Trump sulla scena mondiale. Dice Enright: «C’è
uno speciale fenomeno da evidenziare, quando si parla di Cina, potremmo
chiamarlo step-by-step process: negli ultimi 35 anni quella cinese è una
storia caratterizzata da un attento e controllato processo di apertura,
sempre dominato dall’idea che capitali stranieri, il know how, la
tecnologia, e l’expertise manageriale debbano essere stati utilizzati a
beneficio esclusivo dell’economia cinese. Questo step-by-step process in
parte è imputabile alla necessità di mantenere il controllo dei
processi, in parte a quella di partire da zero nella costruzione di
istituzioni legali. E, d’altronde, la Cina ci ha messo un bel po’ a
capire come mai doveva costruire questa impalcatura, anche a difesa dei
suoi stessi interessi sviluppati in Cina in un contesto ormai globale».
Mentre
gli investimenti stranieri diretti in Cina al ritmo di 100 miliardi di
dollari all’anno, e quelli in termini di stock hanno raggiunto la vetta
di 1,6 trilioni di dollari, nel complesso dell’accumulazione del
capitale toccano una percentuale ridotta. Ma se si passa ad analizzare
l’impatto economico specie sulle filiere produttive il discorso cambia
drammaticamente ed è qui che bisogna appuntare l’attenzione. Sulla
supply chain cinese gli investimenti nel 2013 sono stati dell’ordine del
33% sul versante del Pil e del 27% sui posti di lavoro prodotti nel
Paese. Circostanza confermata dall’analisi condotta nel quinquennio
2009-2013.
Esistono ulteriori effetti a cascata, di cui bisogna
tener conto. «Tecnologia, management, pratiche di business hanno
rappresentato un moltiplicatore di questi benefici. Per non parlare –
aggiunge Michael J.Heinrich – dell’effetto sul commercio internazionale e
dell’export, che poi è quello di cui si discute adesso».
La Cina
deve prendere atto quindi che nonostante il calo delle quote degli
ultimi anni, le imprese straniere che in Cina hanno investito assorbono
la metà del commercio cinese.
Qui sta infatti un altro aspetto
dell’abbraccio mortale tra Cina resto del mondo e, di conseguenza Stati
Uniti, la prima destinazione delle merci made in China. Come tornare
indietro quando è proprio il network straniero ad aver permesso alle
stesse merci cinesi di rimbalzare anche all’estero, in mercati più o
meno contigui? E che dire dell’infrastruttura fisica e finanziaria
associata al commercio internazionale? Senza questa struttura Pechino
non sarebbe stata in grado di affrontare i mercati globali, per giunta
munita di una moneta non convertibile. Anche il reticolo di aziende
locali, ovviamente, ha approfittato di questa opportunità venuta
dall’esterno, in termini di produzione ed export.
Tutto ritorna,
quindi. La Cina ancor prima dell’avvento di Deng Xiaoping fece cadere il
muro dei rapporti con l’Occidente con la dichiarazione di Shanghai che
seguì lo storico incontro tra Richard Nixon e Mao Zedong.
L’inizio
di una nuova era trova oggi un riscontro con la politica degli
investimenti stranieri che ha ancora il laboratorio di eccellenza a
Shanghai, nella Pilot free trade zone. Qui è stato appena varato un
programma rivoluzionario per gli standard cinesi destinato
all’attrazione di talenti stranieri: in un Paese particolarmente attento
ai movimenti dei laowai (stranieri) si fanno aperture strategiche per
chi accetterà di andare a lavorare proprio lì. A guardare quanto è
successo negli ultimi 35 anni e quanto sta per succedere viene in mente
Virgilio e il suo detto «Temo i greci, anche se portano doni». Nel
salvadanaio.